Archivio per Novembre 2010

Rassegna stampa, 12 novembre

postato il 12 Novembre 2010
La crisi è evidente: il Governo Berlusconi è sul punto di esplodere e le forze di opposizione (con il concorso di Fli) preparano le contromosse. Ieri i finiani e l’Udc hanno chiuso (per sempre) all’ipotesi di Berlusconi-bis e oggi i giornali pubblicano numerosi retroscena sulle possibili alleanze al momento del voto, con Libero che ci assicura che il patto Fini-Casini e Montezemolo è già siglato, mentre secondo l’Espresso Casini “preferisce giocare da solo”. Cesa, intanto, “lancia” l’Udc e assicura che noi ci siamo, anche per un nuovo governo di Centro-destra: proprio il Corriere analizza a fondo questa possibilità, scrivendo che il Pd sarebbe disponibile a sostenere questa ipotesi. Liberal, poi, risponde a tono agli insulti di Bossi (al mare ci vada lui, e si porti anche il Cavaliere per favore!), mentre il Foglio – con Enrico Cisnetto – immagina le politiche economiche del futuro Governo (qualunque esso sia). Infine, imperdibile l’intervista di Gianni Riotta a Roberto Saviano su Il Sole 24 Ore.

Pressing su Fini per la crisi. Timori di un voltafaccia Udc (Maria Teresa Meli, Corriere della Sera)

Bersani: “Un esecutivo con chi ci sta”, e l’Udc chiude al Berlusconi-bis (Giovanna Casadio, Repubblica)

Per Fli e Casini mai più Berlusconi a Palazzo Chigi (Fabio Martini, La Stampa)

Patto Fli-Udc: cambiare il premier. Il Senatùr: questa cosa dopo il voto (Claudio Sardo, Il Messaggero)

Napolitano: manovra, buio sulle priorità, meno spese ma non tagliate tutto (Marzio Breda, Corriere della Sera)

Aumenti in arrivo per i treni locali. Regioni in rivolta (Alessandro Barbera, La Stampa)

Pier, Fini e Rutelli pronti alle urne con Montezemolo (Libero)

Casini preferisce giocare da solo (L’Espresso)

Caro Senatur, al mare ci porti il Cavaliere (Liberal)

Nel nuovo governo (Il Foglio)

Il destino di Pier. Ha ragione ma rischia (Libero)

“Governo di centrodestra ma con un altro premier” Il Pd e l’ipotesi di Casini (Corriere)

Cesa lancia l’Udc: “Ci saremo anche noi con un altro premier” (Unità)

Bossi oscilla tra le urne e il governissimo, ma il sospettato è Tremonti (Il Foglio)

La mia Gomorra può sperare negli immigrati (Sole24Ore)

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Libero accesso WiFi? C’è ancora molto da fare

postato il 11 Novembre 2010

Partiamo dal principio, per non perderci nulla. Dunque, viviamo in un Paese, l’Italia, che ha trascorso beatamente un sacco di tempo con una norma retrograda e assolutamente inutile (una delle tante, direte voi: avete ragione) che è stata in grado di bloccare sul nascere la nascita di una Rete libera, indipendente e facilmente accessibile anche da noi. Ricordarvi di quale legge stiamo parlando, è finanche eccessivo, ma tant’è, fatto trenta facciamo trentuno: si tratta dell’ormai celeberrimo Decreto Pisanu, famoso – suo malgrado – per aver impedito all’Italia di essere al pari dei propri cugini europei in materia di accessi wireless ad Internet. Con i disastrosi effetti che ben conosciamo: se il Wi-fi fosse stato liberalizzato molto tempo fa, probabilmente oggi vedremmo, davanti ai tavolini dei bar, giovani che avrebbero la possibilità di restare connessi semplicemente con un portatile e con zero fili. Una vera e propria rivoluzione culturale, perché l’aver confinato Internet nelle abitazioni ha reso la Rete un mezzo esclusivamente privato, da utilizzare solo – magari – per chattare e controllare la posta.

E invece no, perché il World Wide Web è ben altro: è un mezzo di emancipazione sociale, una delle più alte conquiste democratiche della nostra storia; non luogo di solo svago, ma di vita attiva. Ma volete mettere la possibilità di poter conoscere le ultime notizie in tempo – veramente – reale, di poter leggere i giornali quando e come ci pare, di poter stare “on-line” 24 ore su 24?

Succede, però, che a un certo punto – dopo una lunga e serrata protesta da parte degli esperti e una proposta di legge targata Api-Fli-Pd-Udc (ne abbiamo parlato qui) – dalle parti del Governo ci sia reso conto che avanti così, proprio non si poteva andare. E così si è corsi ai ripari: dopo un iniziale gioco dello scaricabarile tra Vito, Brunetta e Maroni, alla fine il CDM si è deciso di “abrogare” il Decreto Pisanu. Cioè, un attimo: “abrogare” è una parolona grossa. Infatti, come ci spiegano bene Fabio Chiusi sul Nichilista, Massimo Mantellini su Il Post e Guido Scorza sul blog de Il Fatto, il tutto potrebbe rivelarsi un gigantesco bluff.

L’articolo 7 del Decreto Pisanu prevedeva tre obblighi per chi intendesse fornire un collegamento Wi Fi o collegarsi a una rete WiFi in Italia:

  1. l’obbligo di chiedere “la licenza al questore” (comma 1)
  2. l’obbligo di monitorare “le operazioni dell’utente” e “l’archiviazione dei relativi dati” (comma 4)
  3. l’obbligo di attivare “misure di preventiva acquisizione di dati anagrafici riportati su un documento di identità” (comma 4)

Ora, dei tre punti soltanto il primo è a scadenza (nel decreto è indicata la data 31 dicembre 2007, poi prorogata di anno in anno). Per gli altri due, e lo afferma il deputato del Pdl Roberto Cassinelli, sarà invece «necessaria una nuova legge che vada a modificare la singola disposizione». Inoltre (come spiega laconicamente il sito del Governo), da oggi in poi “pur mantenendo adeguati standard di sicurezza, è previsto il superamento delle restrizioni al libero accesso alla rete WiFi”. Ora, domandina semplice semplice: in che modo si vogliono mantenere “adeguati” questi standard di sicurezza? L’ipotesi più probabile pare sia l’introduzione di un sistema di identificazione via sms: l’utente immette on line il proprio numero di cellulare e a quel punto riceve una password con cui può accedere alla Rete. È vero, già l’abolizione di alcune parti del Decreto Pisanu permetterà di sburocratizzare e facilitare l’accesso ad Internet, ma che senso ha mantenere validi sempre laccioli e legacci vari? Mi sembrano assolutamente inutili e fuori luogo e dello stesso parere è Alessandro Giglioli, che scrive“Curioso tuttavia che queste «esigenze di identificazione», motivate con ragioni di prevenzione antiterrorismo, non vengano avvertite in tutti gli altri Stati occidentali dove la navigazione senza fili è libera, sebbene ci siano stati casi molto significativi di attentati, a partire dagli Stati Uniti”. Curioso, eh? In sostanza, il Governo ha avviato l’iter di “liberalizzazione” della Rete, ma si tratta ancora solo di un timidissimo passo. Resta ancora moltissimo da fare e prima che dall’emendare le leggi, bisognerebbe partire dal rivoluzionare la cultura di alcuni di noi. Per far capire, finalmente, che Internet non morde. Anzi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

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Immigrati, il Governo nella trappola libica

postato il 11 Novembre 2010

Corsi e ricorsi storici sulle sabbie dei deserti libici. Sembra non far eccezione questo esecutivo, che come tanti altri ha avuto a che fare con problemi legati a quella terra.

Lunedì, nel corso di un voto alla Camera sulla ratifica del Trattato di amicizia italo-libico, la maggioranza è stata battuta dal voto dell’opposizione. La mozione rimarcava ciò che l’UDC chiede a gran voce da oltre due anni, da quando cioè è stato siglato il patto tra i Roma e Tripoli: maggiori garanzie sui diritti umani dei rifugiati.

Il governo ha dapprima acconsentito, in seguito con un inspiegabile passo indietro, si è rifiutato di riconoscere l’estensione della tutela ai migranti nei confronti degli abusi libici. Sono note le vicende dei migranti che oltrepassano il confine libico da sud, per dirigersi verso la costa: coloro che scampano alle terribili condizioni ambientali del deserto, si trovano catapultati in quelle quasi peggiori dei campi di prigionia.

Nel caso degli eritrei, oltre al rimpatrio, si aggiunge la consapevolezza che il regime di Asmara ha già provveduto a punire anche i congiunti. Persino il costo economico, non solo quello umano dell’accordo è esorbitante: 180 milioni di Euro all’anno per 18 anni.

La crisi di governo si acuisce quindi su un tema fondamentale quali sono i diritti umani e che, a quanto pare, agli occhi del PDL e della Lega, non sono temi così assodati.

Anche la sponda opposta del Mediterraneo non sembra essere immune a crisi politiche. E’ in corso da tempo una battaglia politica tra ciò che è definibile la vecchia e la nuova guardia del regime: da una parte l’establishment che fa capo al primo ministro Baghdadi Ali al-Mahmudi, interessato a conservare l’attuale struttura di potere; dall’altra il figlio del leader stesso, Seifulislam Gheddafi, che con questa mossa tenta di ipotecare il potere per sé nel momento in cui si dovesse aprire la successione.

Lo scontro ha raggiunto il suo acme venerdì, quando per ordine del primo ministro, 20 giornalisti del quotidiano “al-Ghad”, critico nei confronti dell’operato del governo al punto da accusarlo di corruzione, sono stati tratti in arresto sino a domenica. Solo l’intervento di Gheddafi in persona ha sbloccato la situazione.

Suo figlio Seifulislam sponsorizza Jallud, già capo dell’esecutivo dal 1972 al 1977 ed allontanato dalla vita politica nel 1988 in seguito a dei contrasti nati con il Colonnello in occasione della strage di Lockerbie. Le ripercussioni politiche internazionali di questa lotta di potere potrebbero essere nel breve periodo irrilevanti: la struttura è infatti saldamente nelle mani della famiglia Gheddafi, che con l’esclusione di al-Mahmudi accentrerebbe ulteriormente nelle proprie mani il controllo del paese, con scarse possibilità di assistere ad un cambiamento sostanziale di politica, anche in materia di rispetto dei diritti umani.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Università italiana, codice rosso

postato il 10 Novembre 2010

La classifica stilata dal settimanale inglese “The” (Times higher education, costola del quotidiano “The Times”) non lascia dubbi: tra i primi duecento atenei del mondo nessuno di questi è italiano. Probabilmente per chi lavora in ambito universitario e si trova quotidianamente a combattere una vera e propria lotta per la sopravvivenza questa classifica non dice nulla di nuovo, ma per tutti gli altri, governo in primis, dovrebbe rappresentare un tremendo campanello d’allarme.

I 78 atenei italiani (pubblici e privati) risultano surclassati non solo da prestigiose istituzioni accademiche come Harvard, Oxford, Cambridge o il Politecnico francese ma anche da minuscoli atenei come quello della città di Bergen (Norvegia) che conta 250 mila abitanti e dalle università cinesi, egiziane e turche.

La classifica redatta dal settimanale inglese ha tenuto conto della ricerca prodotta nei singoli dipartimenti, della qualità della didattica, degli stimoli creati dall’ambiente accademico ed anche del livello di retribuzione di docenti e ricercatori, e ha il fine dichiarato di orientare i giovani per le future scelte accademiche. Cosa faranno i giovani italiani davanti a questa terribile classifica? Si consoleranno con un’altra ricerca di Qs, gruppo leader dell’Mba Tour, che nella sua top 200 vede l’università di Bologna (176° posto) e La Sapienza di Roma (190° posto), oppure, molto più probabilmente, faranno carte false per lasciare questo Paese? I più, probabilmente, si accontenteranno di riuscire a strappare una misera laurea nella giungla universitaria italiana da appendere al muro per correre a lavorare nel call center.

Tutto ciò a patto che gli studenti trovino ancora i cancelli delle università aperti:  è di questi giorni infatti l’allarme dei rettori degli atenei del meridione riuniti a Palermo che hanno paventato la scomparsa delle università del sud a causa dei tagli e del federalismo. Il rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla, ha denunciato non solo la contrattura delle risorse per scuola e università ma anche la differenza tra quanto avviene in Italia e nel resto d’Europa dove, nonostante la crisi, si continua ad investire su scuola, università e ricerca.

Del gap in materia di scuola e università tra Italia e resto d’Europa ci aveva già avvertito a settembre il rapporto OCSE sull’istruzione secondo il quale il nostro Paese spende solo il 4,5% del Pil nelle istituzioni scolastiche contro una media europea del 5,7%. A rimetterci molto sono le università. Sul rapporto infatti si legge che la spesa media per studente inclusa l’attività di ricerca è 8.600 dollari contro i quasi tredici mila Ocse. In generale risulta dunque che l’Italia investe ancora poco e male nell’istruzione con un contraccolpo importante per lo sviluppo economico. Lo stesso Segretario generale dell’organizzazione Angel Gurria, durante la presentazione del rapporto, ha sottolineato come “ l’istruzione, mentre siamo alle prese con una recessione mondiale che continua a pesare sull’occupazione, costituisce un investimento essenziale per rispondere alle evoluzioni tecnologiche e demografiche che ridisegnano il mercato del lavoro”.

Questi dati, in un paese normale, allarmerebbero anche un bidello figurarsi il capo del governo o il ministro dell’istruzione e dell’università, ma qui siamo in Italia e non ci si scompone nemmeno se Pompei va in macerie. Figuriamoci l’Università.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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L’Italia, Paese che affonda, Paese che crolla. E dove i responsabili non si trovano mai

postato il 10 Novembre 2010

L’Italia è un Paese dove pochi giorni di pioggia mandano sott’acqua un’intera regione, e dove un patrimonio culturale unico al mondo si sgretola. Il Veneto allagato, il crollo di Pompei (solo quattro sassi per il governatore Zaia) metafore entrambe degli effetti devastanti che mancato rispetto delle regole e incuria continuano a causare nel nostro territorio. Ma non solo.

Oggi il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi, nel suo intervento alla Camera sul crollo della Domus dei gladiatori, si è difeso così: «Se avessi responsabilità per ciò che è accaduto sarebbe giusto chiedere le mie dimissioni, anzi le avrei date io. Se invece facciamo prevalere serietà, obiettività e misura, allora sarebbe giusto riconoscere che i problemi di Pompei come le situazioni in cui versa il patrimonio artistico si trascinano da decenni senza che nessuno sia riuscito a risolverli definitivamente e a impostare una strategia efficace». Per il ministro della cultura il problema vero non è una mancanza di fondi, ma la loro gestione. E’ assicurare «una gestione capace di investire al meglio le risorse». [Continua a leggere]

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14 novembre, Roma

postato il 10 Novembre 2010

Ore 10.00 – Palazzo Confcooperative –  (Via Torino 146 )

Partecipa all’assemblea nazionale dei dipartimenti di pari opportunità dell’UDC che tratteranno il tema ‘la crisi dal punto di vista della donna’

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13 novembre, Roma

postato il 10 Novembre 2010

Ore 15.30 – Palazzo Confcooperative  (Via Torino 146 )

Partecipa all’incontro ‘150 anni – Viva l’Italia!’  organizzato dai LiberalDemocratici

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12 novembre, Roma

postato il 10 Novembre 2010

Ore 10.30 – Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani (via della Dogana Vecchia 29)

Partecipa al Senato al primo Colloquio annuale di livello internazionale sul tema: “Il ruolo del Parlamento Europeo e dei Parlamenti nazionali alla luce del Trattato di Lisbona”, organizzato dalle Fondazioni Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer Stiftung

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Premier si dimetta dopo l’approvazione della legge di stabilità

postato il 10 Novembre 2010

Tirare a campare e galleggiare non serve a nessuno: il governo  non c’è più perché una componente ha già detto che lo abbandona è perché ieri in Aula si è visto che non ha una maggioranza. Per cui penso che Berlusconi prima si dimette meglio è, per il Paese e per lui: in questi casi l’accanimento terapeutico non giova al paziente, anzi produce l’aggravamento della malattia.
Il problema è se Berlusconi riesce a fare un sussulto di consapevolezza della situazione o se continua in questa sorta di ridicolo delirio di autosufficienza. Il problema vero è capire se questa legislatura ha ancora un orizzonte temporale abbastanza ampio o se siamo agli sgoccioli.
Finché non si apre la crisi, l’Udc è e resta una forza di opposizione. La prossima settimana ci sarà il voto sulla legge di stabilità che va votata, perché tutti sanno che il rischio della Grecia è dietro l’angolo e  nessuno vuole compromettere la stabilità finanziaria del Paese.
Dopodiché, o Berlusconi scioglie la situazione o lo farà il Parlamento. Io sono per parlamentarizzare la crisi, per riportarla nel luogo dove si fa la politica.

Pier Ferdinando

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