postato il 19 Aprile 2010
‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Gaspare Compagno
In questi giorni, infatti, la Bialetti ha annunciato la chiusura del suo storico impianto produttivo ad Omegna, licenziando 120 persone e riaprendo lo stabilimento all’estero.
In Italia manterrà solo la parte di design, di marketing, e di ricerca. Servizi a valore aggiunto ovviamente, ma che danno lavoro a poche persone e che hanno un indotto ridotto rispetto all’impianto produttivo vero e proprio.
Ne ho parlato oggi con una mia amica, Chiara Corsi, che è originaria della zona e abita a Verbania Prò, vicinissima ad Omegna.
Testualmente mi ha detto (in grassetto la sua dichiarazione): “E’ una cosa enorme. Mi ci sento coinvolta perché gran parte della gente che conosco a breve potrebbe perdere il posto di lavoro e qui non è facile trovarne altri. E’ già successo con Verbano Ondulati che aveva una succursale qui e a causa della crisi l’ha chiusa per tornare a Maranello. O con la Tuborg, dopo lo scandalo delle fatturazioni false. La Bialetti e l’Acetati sono sempre stati una certezza. Se entravi in Acetati eri a posto, mio nonno ci lavorava. Nessuno avrebbe mai creduto possibile potesse chiudere… eppure…”
Eppure Chiara?
“Comunque per la Bialetti questo ti posso dire: La sede di Omegna è la sede storica. Omegna è sempre stata Bialetti, Lagostina, Alessi e rubinetti. Tutti marchi italiani molto conosciuti, apprezzati nel mondo e motivo d’orgoglio per chi ad Omegna e dintorni abita e vive. D’altronde come potevano non esserlo considerato che in tanti omegnesi ci lavoravano da un vita. Con l’acciaio ci hanno campato tante famiglie per anni. Le fabbriche sono sempre state l’unica vera alternativa al turismo, che è una voce importante della zona, ma non sufficientemente stimolata. Da considerare anche che intorno a queste fabbriche si sviluppa altro lavoro con la produzione di componenti. Se una fabbrica chiude, in crisi ci va anche l’indotto, Perché anche se hanno promesso di affidare la produzione di componenti alle piccole realtà della zona su cui hanno sempre fatto affidamento pur di mantenere il “made in Italy” almeno per il 50%, la realtà è che producendo all’estero non ci vorrà molto perché anche quest’ultimo “contentino” venga meno a chi ha contribuito a creare questa tradizione. La verità è che nessuno ha dato certezze, ma solo promesse che, per chi qui ci vive, sono a breve termine e che lasciano ben poche speranze. Il problema vero è la tassazione. Se qui produrre una caffettiera con l’omino costa x, altrove costa almeno la metà in meno e chissenefrega se la qualità non è la stessa, sono i guadagni che contano (e una cittadina in ginocchio è solo un effetto collaterale). Il problema è che oggi è la Bialetti, ma prima ci sono state tante altre piccole e grandi realtà a lanciare allarmi preoccupanti. Omegna è anche un popolo di “rubinettai” molto conosciuto con le sue fabbrichette e una sua eccellenza specifica. Ma se produci un bel rubinetto, elegante, innovativo, unico e subito dopo te lo ritrovi in vendita alla metà del prezzo identico, ma prodotto con materiali scadenti e all’estero che fai? il tuo rubinetto, seppur migliore qualitativamente, ti rimane sul groppone. La verità è che non c’è chi vigila, chi lascia che la libera concorrenza non sia libera a parità di condizioni, ma sleale, chi non difende il marchio italiano come dovrebbe. E Omegna ne è l’esempio.”
Questa è una testimonianza di chi vive quella realtà economica, e sopratutto ci fa capire che una azienda è anche storia di un territorio, è vita, è futuro della gente.
Concretamente cosa si può fare per le aziende che in numero maggiore chiudono gli impianti e si trasferiscono all’estero? Invocare il protezionismo non è la soluzione: ormai l’Italia si trova in uno scenario mondiale, le aziende che non riescono a stare al passo dei concorrenti, sono destinate a chiudere e in questo caso il danno è ancora maggiore.
Possiamo ritenere che una soluzione legata a sovvenzioni sia solo un palliativo e non sia una strategia vincente nel lungo periodo, perché vanno bene nel breve periodo e per tamponare una problema contingente e momentaneo, ma non danno soluzioni di lungo periodo. Non ci basta riuscire a difendere il lavoro per uno o due anni, sperando poi in “miracolo italiano”.
Qui parliamo di colmare dei deficit strutturali.
Oltre a quanto suggerito dalla mia amica, partirei da una breve riflessione. Tutti gli istituti, i ministeri, gli operatori concordano che in Italia, oltre al costo del lavoro, incidono altri costi: infrastrutture insufficienti, gestite male e costose; costi dell’energia alti; trasporti lacunosi, incentrati più sul trasporto su strada che su quello ferroviario, con la conseguenza che il prezzo della benzina incide fortemente.
Cosa si può fare?
Oltre a sbloccare il prima possibile i fondi statali per le infrastrutture, considerando che l’Italia non ha una grande disponibilità finanziaria a causa del suo debito pubblico, direi che la soluzione è il project financing e una revisione delle tariffe della benzina, bloccandole per un certo periodo di tempo.
Il project financing invece, servirebbe per le infrastrutture: i privati le creano e le gestiscono per un certo periodo di tempo, facendo pagare ai cittadini un ticket per l’uso delle ifnrastrutture. Ovviamente per evitare una eccessiva esosità, si potrebbe stabilire che il tichet abbia un tetto minimo e un tetto massimo, collegandolo all’andamento dell’inflazione o ad altre grandezze economiche (costi dei materiali ad esempio) sulla falsariga dei project financing americani.
Sono poche idee, ma su cui si può iniziare a discutere per dare una risposta concreta ai lavoratori della Bialetti e di tante altre realtà economiche.