Tutti i post della categoria: Temi etici

E’ morto il sarto di Ulm

postato il 30 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Per la sua “possibile storia del Pci” Lucio Magri pensò al sarto di Ulm, all’apologo di Bertold Brecht sulla triste vicenda di Albrecht Berblinger, il sarto che volendo volare precipitò giù dalla cattedrale con le sue ali finte. Nel racconto di Brecht il vescovo che mette alla prova il sarto di Ulm alla fine sentenzia perentorio: “mai l’uomo volerà”. Forse nel suo viaggio verso la Svizzera, in questi ultimi anni bui dopo la morte della moglie, Magri avrà ripensato a questa tragica sentenza come metafora triste della storia dei comunisti italiani, ma anche della sua esistenza. Solo questo può provare a spiegare il suicidio di un uomo di 79 anni, ma è una spiegazione che genera comunque angoscia. Davanti all’estremo gesto di Magri è necessario un silenzio rispettoso, che allontani le polemiche estemporanee sulla moralità degli atti, ma che comunque deve suscitare la riflessione per quanti restano. Sì, l’estremo gesto di Magri interroga noi che restiamo, non esclusivamente sui temi eticamente sensibili, ma sul senso della vita, sulla felicità, sui nostri rapporti, sul mondo che abbiamo costruito. La complessa figura di Magri mi ha riportato alla mente il bel film di Ettore Scola “la Terrazza” dove uno straordinario Vittorio Gassman nei panni di un deputato comunista adultero in crisi interroga un’austera platea congressuale chiedendo: “è lecito essere felici, anche se questo crea infelicità?”. La domanda di Magri probabilmente è la stessa del compagno in crisi del film di Scola, ma anche la reazione degli astanti sembra la stessa: l’assemblea tace perplessa.

 

 

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Riconoscimento della LIS, la Sicilia apre la strada.

postato il 20 Ottobre 2011

Per una volta la Sicilia è avanti rispetto al resto del Paese. Così se a Roma il riconoscimento della LIS si è impantanato alla Camera dei deputati, a Palermo l’Assemblea regionale siciliana ha approvato all’unanimità il disegno di legge in favore della diffusione della lingua dei segni italiana (LIS) come lingua propria della comunità degli audiolesi promosso dal deputato dell’Unione di Centro Totò Lentini. Il disegno di legge intende promuovere la lingua dei segni italiana (LIS) come strumento di ausilio e di integrazione delle comunità degli audiolesi e incentivarne l’acquisizione e l’uso, determinando in particolare, mediante un regolamento, emanato dal Presidente della Regione, le modalità di utilizzo della stessa nell’Amministrazione regionale e in ambito scolastico e universitario, nel rispetto delle rispettive autonomie. La normativa proposta mira, piuttosto che riconoscere la LIS come strumento aggregativo e di distinzione di una comunità degli audiolesi – per sua natura assolutamente eterogenea -, a considerare questo linguaggio come uno degli strumenti a disposizione per superare gli ostacoli posti dall’handicap auditivo, nella consapevolezza, peraltro, del pieno diritto di questi soggetti di imparare e scrivere correttamente la lingua italiana. L’obiettivo è, attraverso questa promozione che rivendica di anticipare, nell’ambito della competenza regionale, le determinazioni che assumerà il legislatore nazionale, quello di rimuovere, in ossequio all’articolo 3 della Costituzione, alcuni degli ostacoli che possono limitare il pieno diritto di cittadinanza degli audiolesi, fornendo loro un importante strumento di ausilio. Il ddl sulla “Lingua dei Segni” è dunque un valido strumento di integrazione per le persone audiolese e costituisce, come ha ricordato l’onorevole Lentini, ”il primo di una serie di impegni che l’Udc intende portare avanti per garantire i diritti delle persone con disabilità”.

Adriano Frinchi

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Siate sempre pronti a testimoniare la Speranza nell’immensa certezza di una Presenza

postato il 21 Agosto 2011

Mentre sto scrivendo circa due milioni di giovani sono radunati nella piazza dello scalo Cuatro Vientos di Madrid nella grande veglia di preghiera in attesa dell’aurora e della celebrazione eucaristica di domenica mattina con Benedetto XVI che chiuderà la XXVI° Giornata Mondiale della Gioventù. Cosa stanno cercando questi giovani e chi o che cosa li ha richiamati fin qua?

La prima Giornata Mondiale della Gioventù risale alla domenica delle Palme del 1986 sulle radici del Giubileo Internazionale della Gioventù svoltosi in occasione dell’Anno Sacro della Redenzione per ricordare il 1950° anniversario della Risurrezione del Signore.  Trecentomila giovani provenienti da più parti del mondo giunsero in Piazza San Pietro, ospitati da circa seimila famiglie romane. Nell’occasione papa Giovanni Paolo II consegnò una croce di legno ai giovani per simboleggiare l’amore del Signore Gesù per l’umanità .  “Siate siete pronti a testimoniare  la Speranza “ fu il messaggio del pontefice ai giovani. Come doveva essere difficile parlare allora ai giovani di Speranza!  Anni bui in cui si aggirava minaccioso lo spettro della Guerra Fredda e i moti liberali e sindacali dell’Europa Orientale erano schiacciati dal pugno di Mosca, anni in cui l’Italia era stretta nella morsa dell’odio del terrorismo nero e rosso e lo stesso Giovanni Paolo II solo tre anni prima veniva gravemente ferito nell’attentato terroristico di Ali Agcà. Eppure in quegli anni di paura, intolleranza e incapacità di sollevare il proprio sguardo verso il futuro, si dimenava nei cuori un inesprimibile desiderio di libertà che ben presto sarebbe scoppiato disegnando un nuovo mondo.

Ancora oggi è difficile parlare di Speranza, anzi, è molto più difficile. Non sono più le ideologie a gettare l’uomo in catene ma al contrario è il Nulla ad accecare la nostra vista e i nostri cuori.  C’è una constatazione semplice e allo stesso tempo drammatica: nella mentalità diffusa ai nostri giorni, nelle fatiche del vivere quotidiano sembra non sia più possibile nessuna certezza. Viviamo tante crisi che mettono in discussione conoscenze acquisite da tempo e non solo nel campo della politica e dell’economia. Lo percepiamo nel mondo del lavoro, lavoro in cui i giovani pur essendo ancora non entrati lo percepiscono come un fenomeno lontano, astratto, guscio di candida conchiglia vuota, rancida carne di mollusco, interinale, subordinato, usa e getta, navigato, soddisfatto e mai rimborsato. Lo percepiamo nella società dell’amore di plastica dove l’amore è una chimica chimera che attiva solo ormoni e dopammina incapace di incamminarsi in un progetto auntentico e duraturo in una società liquida dove tutto scorre, dove tutto è consumo. Quello che è in gioco oggi è qualcosa di più radicale, è la grande ombra del nichilismo, l’ospite inquietante che turba i nostri tempi e frantuma i nostri sogni con le nostre certezze e i nostri desideri. E’ il Nulla e l’angoscia del Nulla, del vuoto che guarda dentro di te.

Questi due milioni di giovani non sono a Madrid per  una vacanza o una kermesse, sono qui in cerca di qualcosa o qualcuno che dia un senso genuino alla loro esistenza. Cercano qualcosa che li renda protagonisti della loro vita, che li porti a una presenza nella società fatta di una comunione visibile e propositiva, e cercano in primo luogo  di essere felici ponendosi in modo perentorio , clamoroso e anticonformista quella domanda di un senso ultimo e di una felicità da percepire all’interno dell’essere umano, vogliono la Bellezza, vogliono la Verità, vogliono la Giustizia che la lunga mano dell’ospite inquietante ha ucciso!

Questi due milioni di giovani non vogliono un sentimento, vogliono un fatto è quel fatto è una presenza, è Gesù Cristo centro del cosmo e della storia che rende unica e autentica la realtà, quella linea di confine in cui la storia e il mistero dell’uomo si incontrano. Cercano un Dio che non è un principio assoluto assiso nel’alto dei cieli ma fonte di amore, amore puro e disinteressato, amore indissolubile, fiamma d’amore che li renda protagonisti nella loro vita e riguardi tutti gli aspetti del loro essere. Un testo cristiano del II° secolo, la lettera a Diogneto, così descrive i cristiani:

“ I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale . La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale”

I cristiani dunque si comportano come tutti, ciò che cambia è lo spirito che li anima nel fare le cose, uno spirito di Speranza perché hanno un’immensa certezza, l’incontro di un fatto, di una presenza che non li abbandona mai, nemmeno  nelle nelle oscure e fitte nebbie del Nichilismo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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Il Testamento Biologico

postato il 14 Luglio 2011

279 si, 206 no, 11 astenuti, la Camera approva!”. Queste parole riecheggiano il 12 luglio 2011 nell’aula di Montecitorio ma la nostra storia parte da qualche anno più in là. 4 aprile 1997: in Spagna a Oviedo i paesi membri dell’Unione Europea firmano la “Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alla applicazioni della biologia e della medicina” che invita e vincola i paesi firmatari a creare e ad adottare negli anni seguenti norme contrarie all’accanimento terapeutico e alla regolazione del consenso informatico. A rappresentare l’Italia in quel momento è il primo governo Prodi che presto sarebbe giunto al capolinea con il ribaltone dalemiano. Da quel momento sono passati ben 14 anni, 14 anni intessuti di scontri, astio, fazioni che forse avrebbero potuto e anzi dovuto dare spazio a un maggior dibattito, pacatezza e serenità nell’interesse di tutti .

La “bomba” viene sganciata dal paese dei tulipani nel 2002 con un testo che per molti è la pietra miliare del “diritto all’eutanasia”. In realtà, tale testo stabilisce, non il “diritto all’eutanasia”, l’eccezione di alcune norme del codice penale che prevedevano la non imputabilità del medico per sospensione dell’erogazione di cure -in una regolamentazione peraltro abbastanza rigida- con paziente consenziente. Piccola sottolineatura: la costituzione e il diritto civile olandese, punto di riferimento per il pensiero più libertario, non afferma – così in tutto il resto del mondo – mai esplicitamente che l’eutanasia sia un diritto.

Fra qualche mese, quando il ddl Calabrò sarà definitivamente tramutato in legge con l’approvazione del Senato della Repubblica, anche l’Italia disporrà di una sua legislazione in merito. Ma che cosa afferma nello specifico la legge approvata alla Camera il 12 luglio? Cerchiamo di capirlo insieme.

Essa si compone di nove articoli, il primo dei quali “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge”, e vieta esplicitamente “ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica e quella di assistenza alle persone esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza”.”

Il secondo articolo è sul consenso informato “Salvo i casi previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è attivato previo consenso informato esplicito ed attuale del paziente prestato in modo libero e consapevole”.

Ma il cuore della legge è sicuramente l’articolo 3 che “esprime orientamenti e informazioni utili per il medico, circa l’attivazione di trattamenti terapeutici purchè in conformità a quanto prescritto dalla presente legge”. Si tratta di un vero e proprio testamento biologico, denominato DAT, dalla durata di cinque anni e rinnovabile legato al dichiarante e a un suo fiduciario che sarà contenuto in un archivio unico nazionale e informatico sotto la tutela del Ministero della Salute. Il parere del medico sarà tuttavia vincolante perchè “sentito il fiduciario, annoterà nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno” in base anche alla novità offerte dalla ricerca biomedica nella lotta alle malattie. Escluse dalla sospensione delle cuore sono l’idratazione e l’alimentazione considerate dalla legge non cure ma diritti inalienabili di ogni essere umano.

Non voglio fare discorsoni né rischiare di aprire infiniti dibattiti di stampo bioetico, medico o filosofico: semplicemente invito ciascuno di voi a riflettere molto semplicemente sui contenuti della legge che vi ho elencato in breve e magari a rintracciare e leggere il testo completo.

Piccolo suggerimento: ragioniamo e facciamolo con la nostra testa non facendoci condizionare da schemi di partito ma in base al nostro pensiero, coscienza, rispetto. E’ squallido e insensato prendere posizione perché semplicemente si appartiene a una parte politica e a una certa corrente di pensiero, ognuno di noi ragioni con la sua mente e la sua coscienza. E’ questo l’atteggiamento giusto.

Jakob Panzeri

PER APPROFONDIRE:

La convenzione di Oviedo, consiglio Europeo 4 aprile 1997

Il testo della legge italiana e i dossier allegati sul sito della Camera dei Deputati

La legislazione olandese

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Fine vita e dignità dei bambini

postato il 7 Maggio 2011

Si è ripreso a discutere in Parlamento di testamento biologico e di regolamentazione del fine vita. La discussione non può prescindere dal dovere da parte delle istituzioni di rendere dignitoso ogni istante di vita di coloro che si ritrovano a convivere con una malattia incurabile. Recentemente, in occasione di un meeting di lavoro, ho avuto modo di sentire un intervento che riguardava un aspetto molto delicato di tale questione: la malattia incurabile pediatrica.

Se la parola “inguaribile”, riferita alla malattia di un adulto, è difficile da accettare, quando riguarda un bambino è straziante. Eppure in Italia sono oltre 11000 bambini a dover affrontare il calvario di una malattia incurabile (1/3 delle quali di natura neoplastica, le altre di natura degenerativa o dismetabolica), e sentire le difficoltà dei genitori durante quella terribile esperienza fa capire quanto le istituzioni facciano davvero poco per sostenerli. Esistono genitori che imparano procedure mediche avanzate perché non c’è nessuno che lo possa fare a domicilio; esistono genitori perennemente angosciati perché se il loro bambino ha una crisi cardiaca durante la notte non c’è un medico di riferimento ma solo il pediatra di famiglia che ti lascia il suo cellulare pur non essendo obbligato a farlo; esistono genitori che fanno sforzi immani per far si che il loro bimbo abbia una vita normale nonostante tutto. Tutto questo, anche se straordinario, è inaccettabile.

Per un bimbo malato esiste il qui e ora, non ha la percezione che fra un anno non ci sarà più. Il bambino percepisce il dolore fisico, ma forse gli fa più male il non poter andare più a scuola o non poter più giocare con altri bambini. Un bambino in queste condizioni non vuole solamente non sentire più dolore, ma vuole non sentirsi emarginato dagli altri bambini per via della sua malattia, vuole poter continuare a studiare e giocare. Accanto a questi bisogni esistono le esigenze dei genitori: sostegno psicologico, assistenza medico-infermieristica a domicilio, strutture socio-assistenziali adatte a un bambino(spesso vengono mandati in una RSA per adulti perchè non ne esistono di pediatriche, assistenza qualificata a domicilio durante l’orario di lavoro. Sono evidenti a tutti i doveri delle istituzioni, doveri che non possono più procrastinare: assistenza medica, psicologica e sociale del fine vita pediatrico, sia in ospedale che nel territorio.  In questo l’Università di Padova, con il suo Hospice pediatrico nel Dipartimento di Pediatria, sta facendo da apripista. Ma non basta.

La politica forse continuerà ad accapigliarsi sui principi e sui dogmi,  ma di sicuro c’è che uno stato civile deve rendere dignitoso ogni istante di vita, anche l’ultimo, di un individuo. E ciò vale a maggior ragione per i più piccoli.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maria Pina Cuccaru

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Biotestamento, considerazioni a margine del ddl Calabrò

postato il 29 Aprile 2011

“Due singole cellule in punto di morte che con il loro sacrificio e la loro unione originano un nuovo individuo che costituisce l’anello l’eterno di un sublime processo chiamato Vita” con queste parole il grande biologo Frank Rattray Lillie si rivolgeva nel 1935 all’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti d’America che lo aveva eletto presidente.  Uno scienziato che ha dato un contributo fondamentale alla moderna zoologia e biologia dello sviluppo, un agnostico che era in grado tuttavia di cogliere nella Vita un qualcosa che forse nemmeno lui era in grado di spiegarsi, un elemento misterioso e sublime,  unico  e irripetibile ma eterno. La Vita è sicuramente la cosa più importante e preziosa che abbiamo, la condizione per cui siamo qui e per cui possiamo amare chi ci è vicino o anche semplicemente ammirare il panorama e gustare un gelato. E’ proprio di questo si sta discutendo in Parlamento: della Vita. L’immagine che emerge dai mass media  è quella di uno scontro senza esclusioni di colpi tra una dottrina religiosa che forte della sua tradizione vuol imporsi e di un pensiero moderno e liberale (o presunto tale) che crede di essere garante e difensore della libertà delle persone. Non è  propriamente così. Ma cerchiamo innanzitutto di capire il “nocciolo” della questione: parliamo di testamento biologico meglio noto come ddl Calabrò, sintesi di diverse proposte di leggi in materia, che si occupa di  “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento”. Queste disposizioni si rivolgono a persone in stato vegetativo o sindrome di Kretschmer, cioè una possibile evoluzione della stato di coma caratterizzato dalla ripresa della veglia e dalle applicazioni delle attività metaboliche. Molte persone affette da stato vegetativo si risvegliano dopo poche settimane, per altri invece la situazione è irreversibile. La verità è che noi dello stato vegetativo al momento sappiamo poco o nulla, basti pensare che secondo una recente ricerca pubblicata quest’estate dal New England Journal of Medicine circa il 40% delle persone con la diagnosi di stato vegetativo sono coscienti, pur minimamente e altri ancora in numerosi test ottengono un’attivazione delle cortecce celebrali primarie, casi che invece fino a pochi anni fa erano considerati di   “morte celebrale” .  Il ddl si rivolge inoltre e più generalmente a persone “nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze». L’obiettivo chiaro e dichiarato è quello di evitare l’accanimento terapeutico ma senza cadere nell’eutanasia. I punti più discussi e tormentati della legge sono i seguenti: alimentazione, idratazione, coscienza del medico. Ma cosa sono l’idratazione e l’alimentazione? Sono terapie mediche che possono essere interrotte per una presunta volontà del paziente oppure sono forme di sostegno vitale e diritto inalienabile dell’uomo? Togliere l’acqua a una persona significa accogliere il suo desiderio di una morte serena oppure farla morire nel modo più atroce possibile, secca come una foglia? Su questi argomenti si sono svolti convegni medici, conferenze, assemblee,  ma dobbiamo capire una cosa della scienza: nella scienza non esiste il bene e il male, la scienza studia fatti e ne trae conclusioni oggettive, spetta poi all’uomo, al suo senso etico, decidere cosa fare delle ricerche della scienza. E qui salta la fasulla dicotomia tra un pensiero religioso e un pensiero liberale. Qui c’è di mezzo la medicina, la scienza, la filosofia, la bioetica ma soprattutto l’Uomo con tutta la sua sofferenza. Continuamente si fanno ricerche, continuamente si hanno nuove terapie, nuovi metodi analitici, nuovi ricerche. Ciò che è stato studiato l’anno scorso sulla sintesi delle proteine è già vecchio perché una nuovo studio basato sulla moderna cristallografia a raggi x l’ha smontata e oggi c’è una nuova teoria. Pensate a un medico che si trova di fronte alla richiesta di un paziente o di un suo garante di interrompere le cure quando nel frattempo sono magari giunte nuove cuore, nuove terapie, nuove conoscenze. Certo, il paziente ha libertà di scelta, ma anche il medico deve averla e ha una sua coscienza da rispettare ed esercitare, può davvero un medico dare la morte a una persona che ha il dovere morale e umanitario di curare? Ne parlava già Ippocrate di Kos circa 2400 anni fa. Il ddl Calabrò oggetto di discussione e voto in Senato considera l’idratazione e l’alimentazione delle forme di sostegno vitale e dei diritti e cerca di garantire la libertà di scelta del paziente ma anche la coscienza del medico. Per favore, non limitiamoci a dire: di qua ci sono i cattolici oscurantisti e oltranzisti, di là ci sono gli atei della cultura della morte. Assolutamente no, è un discorso molto più complesso, ci sono in ballo medicina, scienza, filosofia, etica, diritto e prima di tutto l’uomo e la sua sofferenza.

Questo argomento a me tocca in modo particolare perché io ho deciso di dedicarmi alla carriera scientifica proprio per la commozione della vicenda Eluana. Il mio senso etico, le mie conoscenze scientifiche, il mio sentire religioso affermano che la vita è un bene unico, irripetibile, inalienabile. Non ho provato un senso di condanna dalla figura di Beppino Englaro, posso comprendere i lunghi anni di un padre a seguire una figlia, il suo desiderio continuamente represso nel vederla sorridere e alzarsi, ma allo stesso mi sono interrogato se non fosse possibile un amore più grande, un amore che si realizza guardando in faccia la sofferenza e sublimando in essa tutta la nostra dignità e il nostro amore.  Ognuno di noi vuole stornare da sé la differenza, pochi si fermano a guardarla in faccia con dignità, è questo il grande insegnamento delle tragedie greche, il sommo patei matos dell’Agamennone di Eschilo: la conoscenza attraverso la sofferenza, una conoscenza non libresca ma la più alta conoscenza umana che si raggiunge amando la propria sofferenza e affrontandola con dignità. E allora no all’accanimento terapeutico e no all’eutanasia. Desidererei uno stato che fosse attento a queste persone, che le aiutasse, che facesse sentire il suo sostegno garantendo ad esempio incentivi ai familiari che si prendono cura di queste persone. Giudico positivamente il ddl Calabrò e ogni altra misura che ha lo scopo di capire la vita, l’uomo, la sofferenza.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Per saperne di più

“La cura che viene da dentro “ di Angelo Luigi Vescovi, un interessantissimo testo sulle cellule staminali adulte che potrebbero rivoluzionare le nostre attuali conoscenze scientifiche e fornire nuove cure per le diagnosi sopra menzionate.

“Lo scafandro e la farfalla” di Jan Dominique Bauby, un toccante racconto sulla sindrome di Dachenne da cui è stato tratto anche un film vincitore del premio alla regia del festiva del cinema di Cannes.

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Asia Bibi, se i cuori si induriscono

postato il 28 Marzo 2011

Nel cuore dell’Asia c’è un paese, il Pakistan, dove è in vigore una assurda legge sulla blasfemia che prevede l’ergastolo per chi offende il Corano e la pena di morte in caso di offesa a Muhammad. Prima del 1986, anno di entrata in vigore della legge, non vi erano in Pakistan denunce di blasfemia ma dopo in 20 anni ci sono stati circa 1.000 casi, mentre 70 persone, solo accusate di blasfemia, sono state vittime di esecuzioni extragiudiziali. Ma bisogna annoverare in questa tragica lista anche i nomi di quanti sono morti per essersi soltanto opposti alla legge sulla blasfemia: il  musulmano, Salman Taseer, governatore del Punjab (il 4 gennaio scorso dalla propria guardia del corpo) e del cattolico, Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze del Governo pakistano (il 2 marzo per mano di gruppo di uomini armati). Questo accade nel cuore dell’Asia. Poi c’è quanto accade nel cuore di Asia. Asia Bibi è una donna pakistana di 45 anni, madre di cinque figli, che è stata condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta Muhammad. Asia è stata accusata dalle vicine di casa che non volevano farle toccare il recipiente per la raccolta dell’acqua ed ora si trova  nella cella di isolamento del carcere di Sheikpura, nel Punjab, gravemente malata,  impaurita per la sua sorte e quella dei suoi familiari ed amici e in attesa della morte. Ma nel cuore di Asia, come racconta in una straordinaria intervista al quotidiano “la Repubblica”, non alberga solo la paura ma c’è anche posto per la speranza, speranza che è fatta di cose semplici come potere organizzare una cena per la propria famiglia e di cose grandi come vedere abolita la legge sulla blasfemia che a detta di Asia “fa male ai cristiani e ai musulmani”. Asia Bibi ha anche un altro desiderio: vorrebbe incontrare il Papa, sa infatti che ad un Angelus Benedetto XVI ha parlato di lei ed è stata una cosa che ha riempito il suo cuore di speranza e voglia di vivere. Tutto ciò accade nel cuore dell’Asia e nel cuore di Asia, ma ciò che preoccupa di più è la durezza dei cuori degli uomini e delle donne che vivono nel libero Occidente. In Italia dove la questione femminile è ritornata al centro dell’attenzione anche con manifestazioni di piazza, nessuno ha sentito la necessità di parlare di Asia Bibi. Forse è troppo cattolica o forse non è mai stata ad una festa ad Arcore. Ma se la vicenda di  Asia Bibi non tocca il nostro cuore e non fa fremere le nostre coscienze che senso hanno le manifestazioni e gli sproloqui per la dignità delle donne? Perché i cuori di tante donne europee non sono con quello di Asia, perché sono così induriti? La drammatica risposta a questo quesito sta forse in una pagina evangelica: “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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L’eutanasia e la profonda dignità di ogni vita

postato il 5 Dicembre 2010

Eutanasia, uno dei temi etici più complicati del nostro tempo. Scelte che ognuno si augura di non dover mai fare nella propria vita e di chi gli sta attorno. Eppure il problema non scappa, non si può semplicemente chiudere gli occhi e non pensare, diventare insensibili di fronte a coloro che pensano a questa come alla giusta, “dolce” morte. Eutanasia, infatti, significa letteralmente “dolce morte”. Ad essa si appellano persone che decidono di non voler più vivere incapaci di compiere gesti normali, di parlare e comunicare liberamente, di mangiare con l’aiuto della proprie mani, di lavarsi da sole, di alzarsi dal letto, di fare attività fisica, di giocare con i propri figli, di dare un bacio alla persona amata. Ad essa si appellano anche famigliari disperati di persone in coma, in stato vegetativo, paralizzate, colpite da malattie degenerative.

La risposta a queste persone può essere il sì all’eutanasia? Il sì alla libertà di decidere della propria vita o di quella di un fratello, una sorella, un figlio, un padre?

Spesso si preferisce parlare di testamento biologico come mezzo per prevenire il dovere di fare in futuro certe scelte. In realtà, si pensa poco al fatto che il problema viene semplicemente spostato: chi può dire con certezza che tipo di persona sarà nell’eventualità in cui si trovasse intubato, costretto a dipendere dalle macchine per vivere? Chi può dire che la visione del mondo, della sua vita non sarà mutata? Dire ora, a priori, che in futuro non si vuole vivere in determinate condizioni è pericoloso. Piuttosto, bisogna tenere sempre presente che giudicare qualsiasi cosa senza provare in prima persona porta quasi sempre a degli errori. Quante persone, ad esempio, pensano ad una malattia come a qualcosa di terribile a cui psicologicamente non si riuscirà a sopravvivere? Quante persone colpite da un tumore, da una paralisi, da una malattia degenerativa, invece, cambiano completamente prospettive, modi di pensare, convinzioni tanto da riscoprire il valore vero della vita ed attaccarsi ad essa in un modo più forte, puro, senza lasciarsi condizionare da ciò che stanno affrontando e da quella bolla di sentimenti che le avvolge fatta di sconforto, dispiacere e paura delle persone che le circondano?

La vera domanda che ci si deve porre, però, è: perché un uomo, una donna, un giovane arrivano al punto di chiedere di morire? Perché una mamma, un papà, un marito, una fidanzata arrivano a chiedere di far morire la persona tanto amata? Le risposte possibili possono essere ricondotte ad una sola: una vita così non è degna di essere vissuta, vivere così non è vivere. Posto che la persona non soffra molto fisicamente (per questo si deve puntare senza esitazione sulle cure palliative), la vera sofferenza è quella psicologica.

Siamo cresciuti con la convinzione che vivere significa nascere sani, crescere, imparare, studiare, trovarsi un lavoro, sposarsi, fare una famiglia e, una volta trasmessi ai figli i mezzi con i quali sopravvivere in questo mondo, godersi finalmente la pensione e i nipotini. Vite diverse da queste ci appaiono anomale, inconcepibili: ci chiediamo quale sia il senso della vita di un disabile, di una persona down, di un bambino autistico, di un malato con poche prospettive di vita, o semplicemente di una persona che fa scelte di vita che deviano da quelle “normali”, come ad esempio decidere di non sposarsi e dedicare il tempo ad aiutare gli altri, decidere di non avere figli, decidere di vivere la vita viaggiando. Ma ci chiediamo mai se siano le nostre convinzioni ad essere sbagliate? Siamo noi in grado di decidere quale sia una vita degna di essere vissuta?

Barry Neil Kaufman, padre che è riuscito a guarire suo figlio dall’autismo grazie a nuovi atteggiamenti mentali e convinzioni e grazie a tutto l’amore che egli provava e prova per il suo bambino, scrive: “Le nostre convinzioni non solo determinano la nostra visione del mondo e il nostro atteggiamento, ma plasmano anche il modo in cui giudichiamo noi stessi, gli altri e gli eventi della nostra vita. Gran parte di noi ha imparato ad accettare una visione dell’esistenza che ci inibisce e ci crea una sensazione di disagio; ma possiamo ancora disimparare, fare una nuova scelta e intraprendere una nuova vita”. Nessuno sa dire quale sia il senso profondo di ogni nostra vita. Ma questo non ci blocca, non ci frena, non ci fa dire di non voler più vivere. Al contrario, siamo sempre alla ricerca di qualcosa di profondo, di risposte ai nostri perché; impieghiamo molto del nostro tempo nel cercare di trovare un senso a quello che ci succede o nel  tentare di trovare un filo logico che colleghi tutti gli eventi della nostra vita, in modo da farci capire chi siamo e rendeci sereni. Chi dice che la vita di persone diverse dal normale, speciali nel loro essere, abbia un valore diverso? Solo perché non possono fare della loro vita quello che noi tutti vogliamo per la nostra, non vuol dire che nel mondo non ci sia posto per loro, che la loro vita non abbia un preciso e determinato scopo.

Luigi Pirandello dice, attraverso il dialogo di un suo personaggio in “Il fu Mattia Pascal”: “Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si infievolisce anche l’anima, per dimostrar così che l’estinzione dell’uno importi l’estinzione dell’altra? Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! Con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se poi il pianoforte tace, non esiste più il sonatore?”

Ogni vita è degna di essere vissuta. Non sta a noi decidere se vivere o morire. Il nostro (difficile) compito è quello di creare o trovare la risposta al perché della nostra esistenza. Allora, la morte sarà “dolce” perché naturale e fisiologica, non perchè soluzione al dolore della nostra anima.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Chiara Cudini

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Caro Fazio, la tua risposta è vergognosa

postato il 26 Novembre 2010

La risposta di Fazio è vergognosa perchè confonde le mele con le pere e lo fa deliberatamente. Che io vada o meno ospite in una trasmissione di Fabio Fazio non ha nulla a che vedere con la voce che chiediamo venga data ai disabili gravissimi che scelgono di vivere e alle loro famiglie.
Non ho condotto una battaglia per chiedere spazi televisivi che ho a sufficienza. Ho fatto sentire la mia voce non per promuovere il mio partito ma perchè il servizio pubblico televisivo parlasse di almeno uno fra le decine di migliaia di drammatici casi di malati lasciati tra mille difficoltà nel disinteresse generale e che ogni giorno innalzano, insieme alle loro famiglie, un meraviglioso inno alla vita. Non è questo il Fabio Fazio che ho conosciuto, spero abbia parlato la sua controfigura.

Pier Ferdinando

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La pluralità dell’informazione: apologia dell’inno alla vita

postato il 25 Novembre 2010

Riceviamo e pubblichiamo
di Elisabetta Pontrelli*

Non dimenticherò mai la disperazione negli occhi di Piergiorgio Welby e Peppino Englaro. La disperazione di entrambi nell’evocare la morte come liberazione da una sofferenza atroce, ingiusta, insopportabile: all’inizio dell’anno scorso, nel gennaio 2009, Peppino la chiese per l’amata figlia Eluana, da diciassette anni in coma vegetativo dopo un incidente stradale; Piergiorgio l’aveva chiesta invece nel 2006 per se stesso, giunto ormai alla fase terminale della sua terribile malattia, la distrofia muscolare, che l’accompagnava da trenta anni.
La vita a volte è spietata, sembra non voler far sconti a nessuno, né a chi si trova a vivere come Eluana Englaro la dolce primavera dell’esistenza, né a chi è già preparato alla sofferenza come Piergiorgio Welby, che, conoscendo da diversi anni la sua “compagna di viaggio” scomoda, avrà certamente sperato più volte durante il suo percorso di vita che quest’ultima deponesse le armi di fronte all’eccezionale voglia di vivere che egli possedeva, che rinnovava in lui la voglia di lottare e combattere ogni qualvolta l’ostacolo diventava più difficile da superare.

In questa battaglia vissuta all’insegna del “continuare a vivere comunque” c’è stata sempre Mina, la sua supercompagna di vita: moglie, amante, amica, mamma, complice più di ogni altra persona, più di ogni altro tipo di persona che si possa immaginare accanto ad un malato. Ammiro assolutamente la forza d’animo di questa donna-coraggio, il suo super-coraggio, sicuramente scaturito dal suo super-amore per l’adorato marito, nel riuscire ad accettare la volontà di quest’ultimo, riuscendo a rimanere accanto a lui nell’adempimento stesso di quella volontà: l’eutanasia. Rispetto la scelta che lei e suo marito avranno sicuramente analizzato e ponderato, perché è doveroso portare SEMPRE rispetto, soprattutto lì dove non si condivide un’idea o non si ha la stessa visione su un tema così delicato come quello legato alla propria morte: io non ci sarei riuscita con mia mamma, e neanche Michele con sua moglie Marina.

Mia mamma, al secolo Maria Teresa Sanna, malata terminale di Sla, immobilizzata e tracheostomizzata esattamente come Piergiorgio Welby, e Marina, in coma vegetativo proprio come la dolce Eluana Englaro, ricoverata nella stanza accanto a quella di mia madre. Mia mamma e Marina, entrambe splendide donne, di quelle che a 68 anni ne dimostrano dieci di meno, perché amano ancora pittarsi i capelli, gli occhi, le labbra e le unghie, sorridendo così alla vita. Mia mamma e Marina, proprio come Piergiorgio ed Eluana: Michele ed io abbiamo fatto spesso questo paragone, perché chiaramente quello che stavamo vivendo “in diretta” ci rimandava con la memoria a loro. Per liberare mia mamma sarebbe stato sufficiente staccare la spina del respiratore, mentre per liberare Marina sarebbe bastato sospendere la nutrizione e l’idratazione, ma Michele ed io non siamo stati Peppino e Mina. Insieme abbiamo condiviso otto mesi di corsia al reparto neurologia donne del Policlinico Gemelli, esattamente un piano sotto rispetto a dove veniva ricoverato il nostro amato Papa Giovanni Paolo II, che a me personalmente ha fatto tanta compagnia grazie alla statua che era proprio sotto le nostre finestre, statua che lo raffigura aggrappato alla Croce. Soprattutto durante le tanti notti insonni trascorse lì, guardandolo aggrappato a quella Croce pensavo alla mia, condivisa con mio padre e mia sorella, alla quale la vita gliel’aveva già presentata tramite la figlia Eleonora, disabile al cento per cento fin dalla nascita; pensavo alla croce di Michele, il cui unico figlio era in America a lottare con la moglie contro il tumore al cervello di quest’ultima e mi veniva da pensare in generale a tutte le Croci sparse nel mondo e a come fa esso a non sprofondare sotto il loro peso.

Tante domande ovviamente al caro Karol Wojtyla. Unica risposta, osservandolo e ricordando il suo esempio sul campo, la vita è vita sempre e sempre è degna di essere vissuta. Il principio è lo stesso anche per le grandi religioni orientali, Buddismo e Induismo, che, pur parlando di reincarnazione, affermano che ogni vita merita di essere vissuta, in ogni modo possibile, se si intende per VITA la possibilità di LEZIONI DA IMPARARE (ed è chiaro che la vita sarebbe da intendere così, per chi crede). E questa è stata anche l’unica risposta possibile che Michele ed io ci siamo potuti dare, domandandoci quale senso avesse vivere così e il perché di tanta sofferenza, da noi razionalmente rifiutata; una sofferenza in bianco e nero che ha cominciato a farci accettare l’idea della MORTE COME LIBERAZIONE, perché UNICA SOLUZIONE nel nostro caso, ma mai l’avremmo potuta scegliere e mettere in atto per mano nostra, non ne avremmo avuto il coraggio e, sarà sciocco dirlo, abbiamo continuato a sperare fino all’ultimo, anche in ciò che sapevamo non sarebbe mai accaduto. Eppure posso garantire che finché il cuore continua a battere tu non puoi smettere di sperare. NON PUOI, perché è l’istinto innato di sopravvivenza che ognuno di noi possiede che te lo impedisce. La Ragione ti dice che tanta sofferenza atroce è ingiusta ed è vero, eppure il Cuore ti suggerisce che, nonostante tutto, è vita e quindi non puoi smettere di amarla: ed è così che fai, non smetti di amare, pregare e sperare. Pregare la morte come liberazione… sì, può essere, se è l’unica soluzione, ma mai per mano dell’uomo, ti viene da pregare.

La Sla (sclerosi laterale amiotrofica) non ha lo stesso esordio per tutti, non ha lo stesso decorso, gli stessi tempi ed evoluzione: i “pochi mesi” (diciotto) di strazio che ha vissuto mia mamma e molti altri non sono la
regola fissa, per fortuna!! C’è chi convive con questa disabilità terribile (la quale arriva a non farti più mangiare e respirare autonomamente, né a poterti muovere e a parlare) da diversi anni, ma non ha NESSUNA INTENZIONE DI MOLLARE. Basterebbe andare sul sito di Viva la Vita Onlus, per conoscere persone straordinarie come Salvatore Usala, Claudio Sabelli ed il braveheart dell’affaire Sla, il cuore impavido e straordinario del Dott. Mario Melazzini, Presidente dell’AISLA, che afferma con assoluta certezza che la preziosissima lezione di vita che egli ha appreso “grazie” alla Sla è che gli uomini nascono per essere collegati gli uni agli altri e Mario, proprio vivendo questa terribile malattia, ha finalmente imparato a fidarsi del suo prossimo, lui che ora dal suo prossimo totalmente dipende, lui che da “medico” non era mai riuscito a capire quel “volto umano”, quello che va oltre ciò che è visibile a chiunque; quello più vero che appartiene ad ognuno di noi, spesso celato ed umiliato dalla nostra voglia di sopraffazione degli altri, la nostra volontà di dimostrare che siamo migliori degli altri, il cui aiuto non ci serve. Da queste parole vigorose, piene di voglie di vivere con tutta la straziante disabilità, di vivere nonostante essa ed andare oltre, come dice sempre l’ex calciatore Stefano Borgonovo, se ne deduce che sia estremamente necessario e doveroso capire che i malati di Sla e tutti i malati non autosufficienti, come i malati tutti, non hanno gli stessi punti di vista rispetto al senso della vita e rispetto al legame della stessa con la morte e le decisioni eventualmente da prendere in merito.

Di qui la necessaria e doverosa rappresentazione di tutti i punti di vista, se veramente crediamo nel valore della pluralità dell’informazione. Io sono totalmente d’accordo con quanto sostenuto dall’On. Pier Ferdinando Casini, innanzi tutto perché sono convinta che una vera democrazia non possa non augurarsi la pluralità dell’informazione, poi perché anch’io in qualche modo sono stata malata di Sla, essendo stata accanto a mia mamma 24 ore al giorno per circa due anni, di cui uno trascorso in diversi ospedali tra Roma e Milano, dove ho respirato e condiviso un mondo di disabilità, fatto sì di tanta sofferenza, ma anche di tanto vero calore umano, che scaturisce dall’apprezzamento delle piccole-grandi cose che in genere chi gode di buona salute dà per scontato: il profumo delle rose appena sbocciate, il vento fresco che spettina i capelli facendoti sentire vivo o un caffè con un dolcino da assaporare insieme agli altri e non di fretta da soli.

L’anno scorso ho festeggiato il mio compleanno in ospedale insieme a tanti disabili, ovviamente insieme a mia mamma, e non credo di esagerare nell’essere assolutamente convinta che è stato e rimarrà tra i più bei compleanni della mia vita.

Se non c’è la pluralità d’informazione come gli Italiani sapranno mai che esiste un Mario Melazzini che ti può raccontare la sua importante lezione di vita imparata dalla Sla? E Claudio? E Salvatore? Le visioni della vita ed i fatti che ne conseguono sono molteplici: tutti degni di rispetto, tutti degni di essere raccontati nella loro unicità, l’unicità dell’esperienza di vita che ogni malato può e deve comunicare, trasmettendo emozioni diverse, giustamente condivise o meno, ma assolutamente dette.

Dopo che l’On. Casini ha giustamente constatato con rammarico che nella trasmissione Vieni via con me è mancato il contraddittorio che poteva essere degnamente sostenuto, per esempio, dal Dott. Melazzini, come al solito si sono sprecate le faziosità ed i presunti tatticismi che egli avrebbe adottato e che non sto qui ad elencare perché è cronaca di questi giorni e perché, tristemente, gli Italiani sapranno molto di più di questi veleni, che ci vogliono divisi in guelfi e ghibellini persino di fronte la Morte, anziché conoscere invece la testimonianza che continuamente Mario Melazzini porta ovunque viaggiando: la testimonianza di un altro modo di vivere la malattia, altrettanto degno di essere raccontato, per non farci dimenticare che le PARI OPPORTUNITÀ combattono le discriminazioni innanzitutto comunicando l’EGUAGLIANZA proprio NELL’ALTERITÀ. Non bisogna per forza schierarsi, pensando sia più giusta l’eutanasia rispetto al cosiddetto accanimento terapeutico, la cui soglia di percezione tra l’altro varia da individuo ad individuo.

Semplicemente è giusto ciò che ogni malato decida per sé, proprio perché ognuno di noi è portatore di una propria unicità nell’alterità, sia fisica che intellettiva. E’ offensivo sia per l’intelligenza di Casini sia per la sensibilità dei malati e dei loro familiari pensare che essere per il contraddittorio significhi subdolamente accattivarsi la simpatia dei “soliti elettori cattolici”: esattamente il 21 giugno u.s., Giornata Mondiale del Malato di Sla, Pier Ferdinando Casini è stato infatti l’unico parlamentare che si è sentito in dovere di “scendere” dalla sua poltrona comoda di Montecitorio per partecipare INSIEME ai malati tracheostomizzati, nella medesima piazza, al sit-in da loro organizzato tramite l’associazione che li rappresenta, Viva la Vita, il cui nome sintetizza quello che più vogliono fare, nonostante la loro condizione… perché, come dice sempre Erminia Manfredi, moglie del nostro Nino nazionale e magnifica testimonial dell’associazione, “i malati di Sla adorano la Vita più di noi e la conoscono più di noi che purtroppo diamo tutto per scontato”, quindi anche la nostra salute!

Dopo due giorni, il 23 giugno u.s., il nostro meraviglioso Presidente Casini, essendo l’unico che si è degnato di ascoltarci, ha fatto un’interrogazione parlamentare seria ed appassionata in merito. Ammiro Casini per la sua sensibilità ed è questa che gli consente di affermare ciò che io, come figlia di una malata di Sla, troppo presto deceduta come tanti altri, condivido assolutamente! Non credo che lo possa fare per un proprio tornaconto, ma perché capisce che su questo tema non ci si può soffermare alla spicciolata… Non si può sperare di INCULCARE L’EUTANASIA come fosse andare al market a comperare una fiorentina piuttosto che un’orata come avviene nello spot pubblicitario già mandato in onda in Lombardia, che trovo semplicemente disgustoso perché privo di qualsiasi vibrazione di rispetto ai malati ed ai loro familiari: il pericolo dello spot è quello di poter trasmettere una semplificazione di tutto ciò, con il rischio di contribuire a creare individui non più consapevoli ed autonomi, cioè pensanti con la propria testa, perfino lì dove occorrerebbe solo SILENZIO, SILENZIO, SILENZIO e rispetto per le DECISIONI TUTTE.

Se ogni opinione può essere discutibile e se tutto può essere opinabile, una cosa è certa: i valori non posso essere negoziabili e soprattutto l’idea della vita e della morte che ognuno di noi ha non può e non deve essere semplificata e catalogata in un’unica ISTRUZIONE PER L’USO valida per tutti. Così come si è giudicata infelice la frase “Eluana potrebbe procreare”, chi è intellettualmente onesto non potrà non riconoscere che è altrettanto triste, nonché profondamente ingiusto, volere a tutti i costi convincere gli altri che non ha senso vivere in un certo modo, lì dove il senso ce lo possono comunicare Mario Melazzini e Stefano Borgonovo, poiché quel senso lo cercano e lo trovano ogni ora di ogni giorno, vissuto intensamente come un giorno in più regalato dalla vita da non sprecare (un senso che forse tutti dovremmo riscoprire); un senso che Casini ha toccato con mano avendo condiviso del tempo con i malati di Sla ed è forse per questo motivo che è stato l’unico a reclamare il contraddittorio dell’inno alla vita: poiché bisogna essere altrettanto coraggiosi a voler continuare a vivere, sorridendo ed amando la vita, nelle condizioni di Mario, di Stefano, di Salvatore o di Claudio, né più né meno come nello scegliere l’eutanasia.

E altrettanto coraggiosi sono i familiari che continuano a lottare insieme a loro sorridendo, esattamente come chi coraggiosamente accetta di vedere andar via la persona amata e lo accompagna per l’ultima volta mentre se ne va dolcemente e via con essa se ne va anche un po’ di quell’amore riposto nella lotta insieme, quando un giorno si era pensato di potercela fare, di poter vincere. E sottolineo un po’ d’amore, perché paradossalmente la Morte, cercata o no, te ne lascia dentro più di quanto se ne porta via, te ne lascia sicuramente più di quanto ce ne fosse dentro di te all’inizio del primo atto della commedia. Se proprio abbiamo voglia di urlare il nostro sdegno rispetto a qualcosa, dialoghiamo piuttosto con la Chiesa affinché non possa accadere mai più che a un Piergiorgio Welby, vero Cristo in Croce, non venga concesso il funerale, celebrato invece a criminali e dittatori sanguinari.

*Figlia di Maria Teresa Sanna, malata di Sla deceduta, attaccatissima alla vita
Cagliari, 20 novembre 2010

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