Riforma costituzionale: le ragioni di un Sì
Senato della Repubblica, 20 gennaio 2016 – Ho chiesto di intervenire nella discussione generale sul disegno di legge di riforma costituzionale oggi all’esame del Senato per la seconda deliberazione parlamentare per testimoniare le ragioni del mio voto favorevole.
Da quando sono entrato in Parlamento, nel 1983, la discussione pubblica sulle riforme costituzionali, peraltro avviata già a partire dagli anni ’70, ha avuto al centro il tema del superamento del bicameralismo paritario, che ha rappresentato una costante del dibattito ed è stato oggetto di molteplici tentativi di revisione.
Ricordo, in proposito, l’istituzione della Commissione Bozzi, proprio nel 1983, e i successivi tentativi che hanno occupato il Parlamento nel corso di questi trent’anni: la Commissione De Mita – Iotti nella XII legislatura, la Commissione D’Alema nella XIII legislatura, nella quale si riuscì soltanto a riformare il Titolo V della Costituzione.
Ricordo, inoltre, il tentativo di revisione costituzionale approvato dalle Camere nella XIV legislatura, ma non confermato dal referendum, come pure i tentativi di revisione costituzionale avviati e non conclusi nella XV e nella XVI legislatura.
Nel corso quindi degli ultimi trent’anni, le istanze riformatrici più avanzate che hanno attraversato il dibattito di politica costituzionale si sono orientati in maniera decisa verso un modello di bicameralismo differenziato, in linea con i modelli parlamentari di altri ordinamenti costituzionali europei, nei quali le seconde Camere svolgono funzioni diverse rispetto alle Camere politiche e seguono criteri di composizione differenziati.
Si tratta, quindi, di una scelta non certamente estemporanea, ma frutto di una lunga e approfondita riflessione, né in alcun modo improntata dalla pretesa di realizzare una democrazia a costo zero, perché i costi della democrazia non possono essere considerati dannosi. Questa è una pericolosa demagogia: stiamo attenti perché la storia è piena di corsi e ricorsi, ed è sin troppo facile ricordare la polemica anti parlamentare che diede un contributo straordinario all’avvento del fascismo.
La scelta non è estemporanea – ribadisco – nè, per quanto mi riguarda, legata al tema dei costi della politica ma frutto di una lunga e approfondita riflessione che affonda le sue radici nello stesso dibattito in Assemblea Costituente, nel quale emerge la consapevolezza della incompiutezza e – per certi aspetti – della debolezza della scelta operata in favore di un sistema bicamerale perfetto, nonostante molti autorevoli membri di quell’Assemblea – tra i quali desidero ricordare Costantino Mortati – si espressero in favore di un bicameralismo differenziato: mentre la Camera politica avrebbe dovuto esprimere la rappresentanza “indistinta”, ovvero la rappresentanza della Nazione nel suo complesso, l’altra Camera avrebbe dovuto offrire un diverso canale di espressione della rappresentanza, portando a livello centrale istanze e interessi diversificati, in particolari quelli riconducibili ai territori.
Nella stessa Costituzione vigente vi è traccia di questo dibattito. Basta leggere l’articolo 57 della Costituzione nel quale si afferma, al primo comma, che il Senato è eletto su base regionale.
Occorre certamente essere consapevoli che il testo ora all’esame del Senato, frutto di un iter parlamentare complesso e articolato, che ha avuto inizio nell’aprile del 2014, non è privo di criticità.
In primo luogo, resta incerta la natura della seconda Camera, sia per quanto riguarda alcune delle sue funzioni, sia per quanto concerne la sua composizione.
In riferimento a quest’ultimo aspetto, le modalità di composizione dell’organo si fondano, come noto, su un sistema elettorale indiretto: saranno i consiglieri regionali ad eleggere i senatori tra i membri dello stesso Consiglio regionale e tra i sindaci della Regione.
In seconda lettura, al Senato, è stato introdotto un correttivo importante, il quale prevede che l’elezione indiretta debba aver luogo in conformità alle scelte espresse dagli elettori in sede di rinnovo dei Consigli regionali, così ancorando le scelte dei consiglieri alla volontà popolare.
Resta comunque il rammarico per non aver tentato più coraggiosamente di ispirarsi, pur all’interno di un sistema di elezione indiretta, a modelli costituzionali già conosciuti. Mi riferisco, in particolare, al modello francese, nel quale i senatori sono eletti con un sistema elettorale indiretto, ove però l’elettorato attivo è attribuito ad un platea ampia di soggetti, che assicura all’organo una forte legittimazione democratica.
Quanto alle funzioni, certamente qualificate e aperte a possibili sviluppi che soltanto l’esperienza potrà confermare, sono le nuove funzioni attribuite al Senato (valutazione delle politiche pubbliche, verifiche e attuazione delle leggi dello Stato, controllo sull’operato sulle pubbliche amministrazioni) e la sua proiezione europea che – se ben valorizzata – potrà consentire al Senato di essere effettivamente, oltre che un organo di raccordo con le autonomie locali, anche – se non soprattutto – una Camera di interlocuzione con le istituzioni comunitarie.
Uno sforzo maggiore poteva essere compiuto in riferimento alla partecipazione della seconda Camera al procedimento legislativo. Il sistema definito dal nuovo articolo 70 della Costituzione prefigura un sistema che potrebbe rendere meno fluido il procedimento di approvazione delle leggi e favorire possibili conflitti tra le due Camere, in quanto i procedimenti sono diversificati in base all’oggetto e alla tipologia della legge, criteri che – come si può comprendere – possono essere oggetto di interpretazioni difformi e quindi alimentare ricorsi alla Corte costituzione per vizi in procedendo delle leggi.
Come già emerso nel corso di diversi passaggi parlamentari, elementi di criticità possono essere riscontrati anche in altri articoli della riforma, non direttamente connessi con il tema del superamento del bicameralismo paritario. Mi riferisco alle modalità di elezione del Presidente della Repubblica, su cui sono intervenuto nell’esame in seconda lettura, contribuendo perché la decisione finale fosse quanto più possibile orientata a conservare quei caratteri di indipendenza e terzietà, dei quali il Capo dello Stato – nelle forme di governo parlamentari – non può essere privo.
Altre critiche, in parte condivisibili, sono state mosse alle modifiche apportate al Titolo V della Parte seconda della Costituzione, riguardante l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni.
La possibile torsione centralista impressa all’ordinamento, soprattutto con l’inserimento della cosiddetta “clausola di supremazia”, che consente allo Stato di intervenire, in presenza di determinate condizioni, su materie riservate alla competenza legislativa regionale, potrebbe ulteriormente mortificare le istanze regionaliste già fortemente in sofferenza.
Pur tuttavia, occorre riconoscere che l’intervento su quella parte della Costituzione si è reso necessario per correggere alcune incompiutezze e criticità che la riforma costituzionale del 2001 ha mostrato in questi anni, tanto da alimentare un amplissimo contenzioso davanti alla Corte costituzionale.
In conclusione, ogni considerazione critica non mi sembra tale da vincere le ragioni che mi inducono a pronunciarmi favorevolmente sul testo della riforma in esame. Non si può più attendere, come ha ricordato in più occasioni il Presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano. Troppi sono stati i tentavi falliti. Un insuccesso, anche questa volta, potrebbe alimentare una spirale irreversibile di sfiducia dei cittadini nei confronti della capacità delle forze politiche di riformare le istituzioni.
Peraltro, è ai cittadini che consegniamo la responsabilità finale di adottare questa riforma, secondo una procedura limpida e trasparente. Il Parlamento ha deciso una strada che gli italiani confermeranno o meno. Il Governo Renzi ha spinto questo processo di riforma ed è giusto che ad essa abbia collegato e in qualche modo colleghi il suo destino. E gli italiani dovranno scegliere non sulla base di fuorvianti personalizzazioni, ma nel merito di una riforma da fin troppo tempo attesa.
questa riforma puo essere intitolata: definire per 100 Senatori competenze e attivita diverse dei 400 o quasi di oggi
il senato oer definizone e cultura giuridica è sempre stato l’espressione dei territori anche in modo di funzionnamento molto diverso secondo i paesi la Francia non è il solo riferimento
penso che sia pericoloso fare una riforma senza definire le competenze reale non essendo un paese del nord europea ( lei doveri d’altronde quali paesi rapresneta nella sua cultura il nord Europa )
il fatto di delineare una riforma attribuendo una pseudo competenze secondo la natura della legge mi pare asardoso
il senato è vero e spesso definito come una assemblea che non rapresenta delle scelte politiche ma comunque deve essere sottomesso alla sua espressione nel senso di fare scelte che ingaggia seno la sua responsabilita politica ma almeno il senso della legislatura che in sette anni puo cambiare parrechie volte
fare del senato un assemblea amministrativa o di vigilanza mi pare abnorme e certamente non avviato verso uno stato moderno e verso il futuro , la reppubblica di Weimar non e un esempio da seguire
peraltro il senso dato a la supervisione e di consigli delle legge mi pare assai utopico visto che certe legge faranno un semplice passaggio di cortesie!
mi sono accorto in parecchi modi leggendo certi passaggi della vita italiana istituzionale e altri che l’ispirazione del Duce non è smarrita anzi! con qualche nostalgie di imperatori romani! il dominio della legge non è il dominio di uno spazio sognato da qualche persone anche se grandi giornalisti impreditori politici e altri editori ! non e affare cosi semplice di sostenere tramite un premier un azione di influenze e di trasposizione della realta sperando sancire colla costituzione un cambiamento che non c’è disprezzando sempre altrui!