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Emendamento UDC per aumentare gli sgravi alle famiglie, i soldi sottratti alle slot machines

postato il 7 Dicembre 2010

Mentre alcuni politici fanno i salti mortali per districarsi tra affermazioni e promesse non mantenute, altri vanno al sodo e propongono sgrafi fiscali per le famiglie.

Tenendo fede all’impegno del proprio programma pubblicato questa estate, l’UDC ha presentato degli emendamenti che vogliono aumentare gli sgravi fiscali per le famiglie numerose e a basso reddito.

Ovviamente l’obiezione che sorge spontanea riguarda la copertura finanziaria di un simile provvedimento, perchè è noto a tutti che in questo momento lo Stato italiano tende più a tagliare le spese che ad investire sulle famiglie e aiutare i cittadini e secondo alcuni studi, un aumento degli sgravi fiscali costerebbe fino a 3 miliardi di euro.

Proprio per ovviare a tale obiezione, l’UDC ha collegato il maggiore esborso ad un aumento minimo del prelievo fiscale delle aliquote imposte sugli “apparecchi di intrattenimento”, ovvero le slot machines elettroniche e i poker elettronici che si trovano in molti bar, tabacchi e centri per le scommesse elettroniche. Tutte le altre forme di scommessa e di gioco non verranno toccate.

Quindi sostanzialmente come si finanzierà l’emendamento dell’UDC a favore delle famiglie?

L’attuale sistema a scaglioni prevede aliquote di 12,6%, 11,6%, 10,6%, 9% e 8% su quanto giocato; queste aliquote sarebbero incrementate, secondo la proposta dell’Udc, ognuna dello 0,5%.
Quindi le nuove aliquote andrebbero dal 13% al 8,5%.

Ma la cosa più rilevante è che questo aumento di prelievo non si traduce in un aumento di tassa per il cittadino, ma si tratta solamente di ridurre di poco, gli elevatissimi margini di profitto delle società che gestiscono le slot machines: per dare una idea, la sola Atlantis (la società leader in Italia nelle slot machines) nei primi 6 mesi del 2010 ha fatturato più di 15 miliardi di euro e si prevede che chiuderà il 2010 superando i 30 miliardi di euro.

Questi emendamenti, se approvati, saranno la dimsotrazione di come si possa intervenire a favore delle famiglie senza appesantire i conti dello Stato e senza deprimere le attività produttive in Italia.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catenese

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L’eutanasia e la profonda dignità di ogni vita

postato il 5 Dicembre 2010

Eutanasia, uno dei temi etici più complicati del nostro tempo. Scelte che ognuno si augura di non dover mai fare nella propria vita e di chi gli sta attorno. Eppure il problema non scappa, non si può semplicemente chiudere gli occhi e non pensare, diventare insensibili di fronte a coloro che pensano a questa come alla giusta, “dolce” morte. Eutanasia, infatti, significa letteralmente “dolce morte”. Ad essa si appellano persone che decidono di non voler più vivere incapaci di compiere gesti normali, di parlare e comunicare liberamente, di mangiare con l’aiuto della proprie mani, di lavarsi da sole, di alzarsi dal letto, di fare attività fisica, di giocare con i propri figli, di dare un bacio alla persona amata. Ad essa si appellano anche famigliari disperati di persone in coma, in stato vegetativo, paralizzate, colpite da malattie degenerative.

La risposta a queste persone può essere il sì all’eutanasia? Il sì alla libertà di decidere della propria vita o di quella di un fratello, una sorella, un figlio, un padre?

Spesso si preferisce parlare di testamento biologico come mezzo per prevenire il dovere di fare in futuro certe scelte. In realtà, si pensa poco al fatto che il problema viene semplicemente spostato: chi può dire con certezza che tipo di persona sarà nell’eventualità in cui si trovasse intubato, costretto a dipendere dalle macchine per vivere? Chi può dire che la visione del mondo, della sua vita non sarà mutata? Dire ora, a priori, che in futuro non si vuole vivere in determinate condizioni è pericoloso. Piuttosto, bisogna tenere sempre presente che giudicare qualsiasi cosa senza provare in prima persona porta quasi sempre a degli errori. Quante persone, ad esempio, pensano ad una malattia come a qualcosa di terribile a cui psicologicamente non si riuscirà a sopravvivere? Quante persone colpite da un tumore, da una paralisi, da una malattia degenerativa, invece, cambiano completamente prospettive, modi di pensare, convinzioni tanto da riscoprire il valore vero della vita ed attaccarsi ad essa in un modo più forte, puro, senza lasciarsi condizionare da ciò che stanno affrontando e da quella bolla di sentimenti che le avvolge fatta di sconforto, dispiacere e paura delle persone che le circondano?

La vera domanda che ci si deve porre, però, è: perché un uomo, una donna, un giovane arrivano al punto di chiedere di morire? Perché una mamma, un papà, un marito, una fidanzata arrivano a chiedere di far morire la persona tanto amata? Le risposte possibili possono essere ricondotte ad una sola: una vita così non è degna di essere vissuta, vivere così non è vivere. Posto che la persona non soffra molto fisicamente (per questo si deve puntare senza esitazione sulle cure palliative), la vera sofferenza è quella psicologica.

Siamo cresciuti con la convinzione che vivere significa nascere sani, crescere, imparare, studiare, trovarsi un lavoro, sposarsi, fare una famiglia e, una volta trasmessi ai figli i mezzi con i quali sopravvivere in questo mondo, godersi finalmente la pensione e i nipotini. Vite diverse da queste ci appaiono anomale, inconcepibili: ci chiediamo quale sia il senso della vita di un disabile, di una persona down, di un bambino autistico, di un malato con poche prospettive di vita, o semplicemente di una persona che fa scelte di vita che deviano da quelle “normali”, come ad esempio decidere di non sposarsi e dedicare il tempo ad aiutare gli altri, decidere di non avere figli, decidere di vivere la vita viaggiando. Ma ci chiediamo mai se siano le nostre convinzioni ad essere sbagliate? Siamo noi in grado di decidere quale sia una vita degna di essere vissuta?

Barry Neil Kaufman, padre che è riuscito a guarire suo figlio dall’autismo grazie a nuovi atteggiamenti mentali e convinzioni e grazie a tutto l’amore che egli provava e prova per il suo bambino, scrive: “Le nostre convinzioni non solo determinano la nostra visione del mondo e il nostro atteggiamento, ma plasmano anche il modo in cui giudichiamo noi stessi, gli altri e gli eventi della nostra vita. Gran parte di noi ha imparato ad accettare una visione dell’esistenza che ci inibisce e ci crea una sensazione di disagio; ma possiamo ancora disimparare, fare una nuova scelta e intraprendere una nuova vita”. Nessuno sa dire quale sia il senso profondo di ogni nostra vita. Ma questo non ci blocca, non ci frena, non ci fa dire di non voler più vivere. Al contrario, siamo sempre alla ricerca di qualcosa di profondo, di risposte ai nostri perché; impieghiamo molto del nostro tempo nel cercare di trovare un senso a quello che ci succede o nel  tentare di trovare un filo logico che colleghi tutti gli eventi della nostra vita, in modo da farci capire chi siamo e rendeci sereni. Chi dice che la vita di persone diverse dal normale, speciali nel loro essere, abbia un valore diverso? Solo perché non possono fare della loro vita quello che noi tutti vogliamo per la nostra, non vuol dire che nel mondo non ci sia posto per loro, che la loro vita non abbia un preciso e determinato scopo.

Luigi Pirandello dice, attraverso il dialogo di un suo personaggio in “Il fu Mattia Pascal”: “Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si infievolisce anche l’anima, per dimostrar così che l’estinzione dell’uno importi l’estinzione dell’altra? Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! Con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se poi il pianoforte tace, non esiste più il sonatore?”

Ogni vita è degna di essere vissuta. Non sta a noi decidere se vivere o morire. Il nostro (difficile) compito è quello di creare o trovare la risposta al perché della nostra esistenza. Allora, la morte sarà “dolce” perché naturale e fisiologica, non perchè soluzione al dolore della nostra anima.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Chiara Cudini

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Internet sia un diritto Costituzionale (il libero WiFi resta un miraggio)

postato il 3 Dicembre 2010

In occasione dell’ultimo voto di fiducia al Senato Berlusconi, illustrando i suoi cinque punti programmatici, ha annunciato, ancora una volta, l’inizio dei lavori per il ponte sullo Stretto e il completamento della Salerno-Reggio Calabria. Questo annuncio, per ovvie ragioni, è stato accolto dalle risate ironiche dei senatori che hanno incarnato il sentimento profondo degli italiani davanti alle promesse di questo governo. Del resto l’elenco delle promesse non mantenute, dalla rivoluzione liberale al problema rifiuti a Napoli, è così lungo che ragionevolmente nessuno si azzarda a scommettere su un inaspettato slancio riformatore e innovatore di questo governo.

Eppure un piccolo barlume di speranza era stato dato lo scorso 5 novembre dal ministro Roberto Maroni che in una affollata conferenza stampa annunciò orgoglioso il WiFi libero dal primo gennaio 2011. Il Governo prospettava una celere rimozione delle complicate procedure previste dalle norme antiterrorismo introdotte dall’ex ministro Pisanu per monitorare e identificare gli accessi al Web, norme che a dire il vero si sono rivelate poco efficaci e che costituirono un vero ostacolo alla diffusione di internet senza fili in Italia. Una riforma piccola ma di immensa portata per gli effetti, che aveva fatto esultare gran parte della blogosfera italiana, anche se qualche (illuminato) commentatore aveva classificato la cosa come una non notizia o peggio una presa in giro.

Ad oggi bisogna registrare un nulla di fatto: il Governo non ha sin qui disposto nessun provvedimento per abrogare o sostituire  le norme del decreto Pisanu, e considerate le cattive acque in cui naviga l’esecutivo possiamo a ragione prevedere che dal primo gennaio non cambierà assolutamente nulla in Italia in tema di WiFi libero.

E’ sempre triste quando uomini politici e in particolare uomini di governo fanno delle promesse che poi non mantengono, e la delusione è ancora più grande se la promessa non mantenuta riguarda una materia che vede l’Italia clamorosamente in ritardo rispetto al resto del mondo. L’indolenza del Governo diventa ancor più evidente davanti al vasto consenso che raccoglie la proposta di Wired Italia e del prof. Stefano Rodotà di far diventare internet un diritto costituzionale integrando l’articolo 21.

Malgrado questo ampio consenso nel Paese sembra però prevalere nel governo e nella maggioranza una sorta di paura della libertà della rete ( e per il Popolo della libertà è il colmo…), ampiamente riscontrabile nelle reazioni alla vicenda Wikileaks e nelle dichiarazioni internetfobiche dell’on. Jannone e di Emilio Fede. E’ una paura giustificata quella del governo? Assolutamente no, un governo non  può avere paura della verità, della libertà e della democrazia e dunque non può avere paura della rete perché non può non comprenderla, come ha giustamente sottolineato l’on. Roberto Rao (Udc), come indispensabile strumento per una democrazia partecipata. E la democrazia in Italia non è facoltativa. Per fortuna.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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L’Edilizia, una via per “costruire” lo sviluppo in Italia

postato il 3 Dicembre 2010

Oltre alle proteste degli studenti per la riforma Gelmini, in questi giorni vi è stata un’altra protesta: quella promossa per la prima volta dall’ANCE (Associazione nazionale Costruttori Edili) per presentare un pacchetto di dieci punti per rilanciare il settore edile in Italia.

Questa protesta presenta una caratteristica “nuova” per l’Italia: ha visto sfilare assieme sia gli imprenditori del settore che i lavoratori, segno che entrambi gli “schieramenti” produttivi vogliono superare una sterile contrapposizione per cercare di risolvere i veri problemi che strozzano questo settore economico che registra numeri preoccupanti: 250.000 posti di lavoro persi, +300% di ricorso agli ammortizzatori sociali, oltre il 20% di riduzione delle produzioni di materiali da costruzione, -70 miliardi di valore complessivo delle produzioni, ritardati pagamenti della PA fino a 24 mesi.

Ma cosa chiede l’ANCE? Sostanzialmente l’associazione rileva che le amministrazioni pubbliche hanno il paradosso di non poter spendere, pur in possesso delle necessarie risorse finanziarie, pena la certezza di incorrere nelle sanzioni previste dal superamento del tetto imposto dal Patto di stabilità.

In altre parole, ed è questo il paradosso, regioni ed enti locali incorrono «nella perdita delle risorse comunitarie a seguito del mancato raggiungimento degli obiettivi di spesa previsti da Bruxelles».

Il costo di questo paradosso è semplicemente enorme: le risorse che rischiano di saltare per questa trappola ammontano in tutto a 15 miliardi di fondi Fesr e 27 di fondi Fas di ambito regionale.

Per superare questo problema diventa necessario procedere ad una accurata revisione delle regole del Patto interno di stabilità volte a salvaguardare gli investimenti per la competitività e lo sviluppo. Concretamente questo si può ottenere tramite una «nettizzazione completa» degli investimenti promossi attraverso i fondi comunitari (attualmente sono esclusi dal calcolo del patto solo per il 50%) e attraverso le risorse dei Fas regionali. Il risultato sarebbe che le spese di cofinanziamento dei fondi comunitari non vengano considerate fra le uscite e siano quindi escluse dai tetti di spesa stabiliti dal Patto di stabilità per le Regioni.

Altri provvedimenti utili per rilanciare il settore sarebbero la semplificazione delle procedure amministrative e rafforzare i controlli, attivare strumenti di lotta alla legalità, estendere all’edilizia gli ammortizzatori sociali definiti per l’industria.

La protesta di oggi, oltre al sostegno dei sindacati e di Confindustria, ha visto anche il sostegno dell’UDC nelle vesti degli onorevoli Libè, Galletti, Compagnon e De Poli che hanno dichiarato: “L’Udc chiede da tempo di fornire soluzioni ai problemi di un comparto vitale per il sistema-Italia, specialmente in un momento di profonda crisi economica come quello che stiamo vivendo. Senza un vero rilancio del settore edile, la ripresa della nostra economia sara’ molto piu’ difficile.”

Inoltre, i parlamentari dell’UDC hanno portato avanti alcune proposte per aiutare il settore: “lo sblocco dei crediti che le aziende vantano nei confronti degli enti locali, somme che gli imprenditori hanno diritto a vedersi liquidate e che per molti di loro rappresenterebbero una vera e propria boccata d’ossigeno. Allo stesso modo, siamo convinti che rispetto alle grandi opere si debba dare la precedenza a quelle immediatamente cantierabili, un volano che farebbe ripartire il settore”.
Mentre l’on.le De Poli ha dichiarato che la crisi del settore edilizio sta mordendo con particolare violenza il Veneto.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catanese

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Cosa ci insegna la vicenda WikiLeaks

postato il 2 Dicembre 2010

Le rivelazioni del sito Wikileaks a detta di alcuni sono al momento deludenti (personalmente non ne sono convinto), ma sicuramente hanno raggiunto almeno tre risultati: hanno fatto arrabbiare di brutto la signora Clinton, hanno fatto ridere Berlusconi, ma soprattutto hanno fatto piangere i giornalisti. Ed è questo ultimo punto che mi sembra assolutamente importante in questa intricata vicenda che vede protagonista il sito di Julian Assange: la rete internet e nello specifico Wikileaks ha messo in crisi, dopo l’intelligence americana, l’informazione mondiale che è stata spiazzata da un concorrente sconosciuto e assolutamente libero.

Il sito di Assange si è limitato a diffondere delle informative diplomatiche di cui è venuto in possesso, in fondo in maniera semplice, e ha consentito a livello mondiale la formazione di una coscienza critica rispetto a degli eventi e a dei personaggi che troppo spesso rimangono volutamente oscuri. La rabbia di diplomatici e politici che si vedono letteralmente “messi in mutande” è comprensibile, mentre mi sembra meno comprensibile la sufficienza del mondo dell’informazione e del giornalismo  rispetto a questa vicenda. L’Italia, e l’informazione italiana in particolare, si è chiaramente distinta in questa incomprensione del fenomeno Wikileaks e per giorni abbiamo assistito a servizi televisivi e a prime pagine di giornale a dir poco incredibili: sembravano tutte dettate dall’allarmato ministro Frattini che immagina Wikileaks alla stregua di Al Qaeda. Comprensibilmente molte redazioni sono rimaste disorientate dal fatto che nel mondo qualcuno è stato capace di trovare e dare una notizia senza apprenderla da un programma tv, da una  delle tante veline inviate dai potenti o, peggio, dallo stato Facebook del famoso di turno, e così istintivamente si sono difese da quel “cattivone” di Assange e dalla sua banda parlando di Wikileaks come sito pirata e nel libro paga di qualche organizzazione dedita alla destabilizzazione del mondo.

Non ci si poteva aspettare altra reazione da un sistema di questo tipo che, secondo Luca Sofri, è “una palude che si autoalimenta”, dove  “la mediocrità e l’anacronismo si nutrono di se stessi: si parla di Porta a porta, si va a Porta a porta, la gente guarda Porta a porta e quindi si riparla di Porta a porta”. Qualcuno forse, magari tra i soloni del giornalismo, storcerà il naso davanti a queste critiche eppure penso che un minimo dubbio sull’incapacità della nostra informazione e sulla sua compromissioni con poteri più o meno grandi verrebbe a tutti dopo la semplice osservazione di Massimo Mantellini: come mai nessun grande giornale italiano è stato scelto per ricevere e diffondere i dati di Wikileaks?

Il dubbio viene, eccome, specie se mentre i quotidiani The Guardian, The New York Times, Le Monde ed El Pais e il  settimanale Der Spiegel diffondono i cablogrammi di Wikileaks (con precisi accordi sulla sicurezza)  sui giornali italiani dobbiamo sorbirci patetiche prediche paternalistiche sulla democrazia planetaria in pericolo. Come se la verità fosse un pericolo. Forse la verità è veramente un pericolo, perché la verità, come dice il Vangelo, rende liberi e libertà e verità in coppia hanno sempre fatto paura ai signori di questo mondo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Nel Pdl scoprono che Facebook è peggio dei comunisti

postato il 29 Novembre 2010

Mentre le cancellerie di mezzo mondo tremano per le rivelazioni del sito Wikileaks, in Italia (considerato che Assange non ci ha detto niente di nuovo) il vero nemico è rappresentato da Facebook

Il social network fondato da  Mark Zuckerberg è stato infatti oggetto di ben tre interrogazioni parlamentari rivolte al Ministero della Salute, al Presidente del Consiglio e al Ministero della Difesa dell’on. Giorgio Jannone (Pdl).  Le interrogazioni dell’onorevole Jannone meritano un’attenta lettura, non tanto perché possono risultare esilaranti, ma perché sono un significativo esempio di scollamento della classe politica rispetto al Paese reale. Sì, perché mentre ci sono famiglie che non arrivano alla fine del mese, immigrati abbarbicati sulle gru e operai e studenti che protestano nelle piazze, l’onorevole Jannone è più preoccupato di “aiutare persone affette da comportamenti compulsivi nei confronti dei social network”.

Indubbiamente la preoccupazione del deputato del Pdl è apprezzabile e sicuramente originale, ma mi chiedo se in questo momento storico non ci siano cose un tantino più urgenti da discutere.

Un’altra perla fornita dalle interrogazioni parlamentari di Jannone è la richiesta al Premier di tutela dei minori rispetto ai “pericoli incombenti dall’eccessivo utilizzo di Internet e dei social network”. Preoccupazione anche questa legittima, ma per un buon padre di famiglia e non certo per il Presidente del Consiglio. E però bisogna dare il merito all’onorevole Jannone di aver contribuito significativamente a evolvere il linguaggio politico della destra berlusconiana: se prima i comunisti mangiavano i bambini, adesso ci pensa Facebook. Il deputato del Pdl non se la prenderà se per questa bonaria presa in giro, ma sinceramente è sembrato un po’ esagerato scomodare il Governo per trattare una materia che può, più semplicemente, essere oggetto di riflessione delle agenzie educative e di ogni singola persona di buonsenso.

Jannone però si può consolare perché grazie a Emilio Fede le sue interrogazioni parlamentari sono passate in secondo piano: il direttore del Tg4, dopo un incontro “amaro” (è proprio il caso di dirlo) con l’imprenditore Giuliani, nel corso del suo tg ha lanciato una durissima invettiva contro Facebook, dove in quelle ore si festeggiavano i pugni di Giuliani al povero Fede.

Contro i tripudi di Facebook Emilio Fede ha sentenziato: “una società civile dovrebbe chiudere Facebook, che è una realtà delinquenziale all’origine di episodi drammatici”.  Urge ricordare al direttore del Tg4 che i cretini che incontriamo per strada e che dicono cretinate ai quattro venti sono gli stessi che le scrivono su Facebook e giustamente vanno esecrati nel mondo reale come in quello virtuale, tuttavia la proliferazione di cretini non legittima in nessun modo commenti di questo tipo: “Rossi, incappucciati, questa è gentaglia. Un popolo civile dovrebbe intervenire e menarli, perché capiscono solo quando vengono menati”.

Mi consenta dottor Fede, ma queste  affermazioni  fatte nel corso di un telegiornale da un direttore di lungo corso come lei sono ben più gravi di qualunque cretinata scritta su Facebook. Stia tranquillo direttore, nessuno si sognerà di chiedere la chiusura del Tg4, al massimo si potrebbe ricordare che dovrebbe andare sul satellite.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Milano, una settimana dopo

postato il 28 Novembre 2010

Verso il Partito della Nazione… che sappia anche essere “di quartiere”

Ogni qual volta torno a casa da una convention, un’assemblea, un congresso in cui si parla di politica, bhé, su giornali e tv le polemiche infuriano, i commenti si sprecano, e le interpretazioni delle parole sono le più molteplici.
Ecco, allora, che mi è venuta proprio voglia di dire la mia. Contrariamente a quanto letto sulla stampa, mi son fatto un’idea diversa delle parole di Pier Ferdinando Casini (e non solo). Per prima cosa sinceramente non ho sentito un’apertura a braccia aperte verso Berlusconi né verso il Governo. Così come, dall’altra parte, non mi pare ci sia stata un’apertura particolare al PD o alla Sinistra.
Ho sentito, invece, ribadite e confermate, le scelte cominciate a maturare quasi ormai 4 anni fa, all’inizio di questo lungo e difficile –perché negarlo?!- percorso verso il Partito della Nazione. “Un partito serio, repubblicano”, come direbbe Pier Ferdinando Casini, è quello che vuole assumersi le responsabilità. E’ quello che, consapevole della complicata fase politico-economica-sociale in cui ci troviamo, decide di rimboccarsi le maniche, sporcarsi le mani e mettersi in gioco per primo, se necessario anche al Governo del Paese, per provare a tirar fuori l’Italia da questa palude in cui si trova.

Un partito serio” è quello che si dimostra pronto a dialogare con tutti, capace di ascoltare le tante voci rappresentative del popolo. Certo, è necessario essere chiari, mettere i puntini sulle i quando si parla di valori e principi, ma sarebbe “serio” un partito che urla solo contro gli altri?! Altri che, peraltro, considera “nemici”, e non piuttosto “avversari”. Sarebbe “serio” voler restare ‘puri’, non lasciarsi ‘corrompere’, restare, o meglio, ‘tirarsi fuori’ dalla situazione attuale, pensando di ‘salvarsi’…  sennonché, così facendo, si potrebbe sì dire di non aver avuto commistioni, ma a quale prezzo?! C’è in gioco l’economia, le imprese, cioè il nostro tessuto sociale, le famiglie di tutti e ciascuno di noi, il futuro di ognuno di noi. Come ci si potrebbe sentire privi di responsabilità?! Come si potrebbe “fare spallucce”, o, peggio, pensare che il sol dire “arrangiatevi”, è colpa vostra, colpa di questo bipolarismo forzato che ha portato allo sfinimento la politica e, quel che è peggio, la società italiana?! Come si potrebbe?! Come?!
C’è proprio da cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere, prima ancora che la politica, il mondo! Non è uno “zig-zagare” tattico-politico. E non perché lo dica Casini, né tantomeno perché lo dico io. Ma perché i fatti dicono il contrario: Sono 2 Legislature che l’UdC  si trova all’Opposizione, senza poltrone né cariche da spartire.

E’ stata una battaglia difficile, controcorrente, contro il bipolarismo “all’italiana”… e contro tutti! Ed oggi, questa battaglia, pare proprio essere vinta. O no?! PD e PdL sono al collasso. Spaccati profondamente all’interno, dalla base, presso l’opinione pubblica. E non potrebbe essere altrimenti!
Ma dire “noi l’avevamo detto”, “noi lo sapevamo”, “ecco, avevamo ragione” sarebbe del tutto sterile, improduttivo. E quindi, invece, bisogna darsi da fare! A che serve aver avuto ragione, senza aver pensato ad una nuova prospettiva per il futuro?!  Partendo da una nuova idea per il Paese e per la società italiana, unita.
Ma certo, la Convention a Milano non può essere stata solo sogni e buone idee. Se si vuole essere responsabili è necessario guardare prima a se stessi e vedere “come si sta”. E come sta l’Unione di Centro – Verso il Partito della Nazione?! Che dire… c’è tanto da fare, tanto da costruire. A partire da una vera strutturazione locale e periferica del Partito.

Certo, non sarà domani che si potrà dire “c’è una sede in ogni comune”, ma intanto bisogna cominciare a darsi da fare, da costruire ci sarà anche una nuova classe dirigente, un nuovo fronte di uomini e donne, pronti per le nuove sfide che verranno. Non può bastare più avere un grande e carismatico leader nazionale. Se vogliamo puntare in alto, dobbiamo cominciare (noi giovani) a chiedere al partito di formare le nuove leve, e tra di esse cercare giovani “liberi e forti”, capaci di guidare un vero progresso di rinnovamento, ognuno dal suo territorio, partendo dalla gente che conosce, che frequenta. Perché così può nascere un vero nuovo partito, un partito che parta dalla gente, dal territorio, dai veri problemi e dalle istanze concrete di chi si trova ad affrontare, ogni giorno, piccole grandi difficoltà. Una politica “di quartiere”, vicina alla gente, perché fatta, interpretata e portata avanti da chi di quella gente fa veramente parte.
E questa “sortita” nel ‘verde’ Nord, a Milano, la sua “capitale”, non può certo restare una “toccata e fuga”! Anzi, è il segno che, oggi più di prima, c’è proprio bisogno di soddisfare ed ascoltare le istanze del Nord, le istanze di chi si è fatto, in buona fede, ammaliare dal sogno berlusconiano e dall’orda leghista, ai fatti incapaci di fare alcunché di concreto, né per l’Italia, né per il Nord. Questa sì che è stata una bella sorpresa:  vedere un partito, nell’immaginario collettivo, “meridionalista”, incontrarsi al Nord, e parlare di Nord. La presenza di Gabriele Albertini, uomo forte del Nord –ex(?) primo cittadino di quella Milano che ancora sente e sa essere ‘sua’- non è stata certo una presenza di secondo conto, anzi. Il Nord, forse, finalmente, ha capito che i sogni prospettatigli non son altro che vane promesse elettorali. Ecco perché lo slogan “- promesse + Nord”.

Non c’è tempo da perdere! L’UE e l’Italia –ora anche il mondo, se pensiamo alla Cina e agli USA e alle due Coree- sono in difficoltà, e un ‘governicchio’, che “tiri solo a campare per non tirare le cuoia”, non può proprio bastare, non potrà certo rispondere alle richieste che si leveranno da più parti. La prima cosa che potrebbe, dovrebbe, fare un governo serio è affrontare questioni magari spigolose ma importanti, per la politica e per la società. E non solo legge elettorale, ma anche riforme, della Scuola, delle Finanze Pubbliche, delle Pensioni. E ci saranno da superare levate di scudi, opposizioni decise, proteste. Sarà necessario avere la forza di affrontare la società e smetterla –massmediaticamente- di inseguirla! Sarà necessario avere il coraggio di fare scelte anche impopolari. Ma cosa potrebbe spaventare mai una forza capace di farcela contro tutto e tutti?! Ora sì che si rivela il vero motivo, la vera ratio di quella difficile e tosta battaglia intrapresa 4 anni orsono: assumere su di sé la responsabilità di mettere del proprio nel tirare fuori dal pantano l’Italia. Per salvare l’Italia, per ricucire la società italiana, dilaniata da questo bipolarismo forzato, a Milano, lo scorso weekend, abbiamo battuto un bel colpo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Edoardo Marangoni

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Router e Governo: un’iniezione di burocrazia per l’accesso a internet

postato il 26 Novembre 2010

Il governo italiano, in data 22/10/2010, ha recepito la direttiva europea 2008/63/CE della Commissione, del 20 giugno 2008, relativa alla concorrenza sui mercati delle apparecchiature terminali di telecomunicazioni, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea n. 162 del 21 giugno 2008, arrivando a complicarla e, probabilmente, anche stravolgerla.

Cosa dice la direttiva comunitaria? La direttiva comunitaria voleva liberalizzare il mercato dell’accesso a internet e alle telecomunicazioni muovendosi in due passaggi: da un lato abolendo i diritti speciali o esclusivi di importazione e commercializzazione delle apparecchiature, dall’altro rendendo pubblici le caratteristiche tecniche dell’interfaccia della rete pubblica.

Cosa significa ciò?

In passato, alcuni Stati europei avevano concesso ad alcune aziende in via esclusiva o tramite diritti speciali, la commercializzazione e l’importazione delle apparecchiature per connettersi alla rete pubblica. Ma questo era in contraddizione con lo spirito dell’articolo 3 lettera g, del Trattato dell’UE che prevede la libera circolazione di merci e prodotti, e il divieto di norme che ledono la libera concorrenza e che proibiscono di favorire determinate aziende a scapito di altre.

Questo era solo un primo passo, perchè con l’abolizione dei suddetti diritti, l’utente poteva decidere di servirsi dei prodotti e dei servizi che ritenesse più convenienti. Tutto ciò è reso vano perchè i prodotti sul mercato sono tanti, ma non tutti permettono, per caratteristiche tecniche, una connessione soddisfacente.

Ciò era solo un primo passo, perchè con l’abolizione dei suddetti diritti l’utente poteva decidere di servirsi dei prodotti e dei servizi che ritenesse più convenienti.

Ed ecco quindi il secondo passaggio: rendere pubblici e accessibili i dati tecnici delle reti pubbliche, in modo che conoscendoli l’utente potesse trovare la soluzione tecnica più idonea per i suoi bisogni.

Tutto ciò era possibile perchè i dati tecnici dovevano essere resi pubblici dagli operatori medesimi, mentre il compito dei singoli Stati era quello di vigilare affinchè gli operatori si comportassero in maniera adeguata a alla legge.

Riassumendo quanto detto: l’obbiettivo della norma europea era liberalizzare e facilitare l’accesso al mercato delle telecomunicazioni, permettendo la libera concorrenza e facendo si che gli utenti potessero confrontare le offerte e le caratteristiche tecniche delle aziende produttrici di apparecchiature e terminali.

Ovviamente, il termine “rete pubblica” non deve trarre in inganno nessuno, perchè è la terminazione che giunge nelle nostre case attraverso il doppino, la fibra ottica o altri mezzi trasmissivi. Quindi il termine “rete pubblica” non deve far pensare a rete utilizzata dalla pubblica amministrazione, o rete a cui accede il pubblico o ambiti lontani da quelli domestici, si tratta semplicemente della classica “borchia telefonica”.

Cosa ha fatto il governo italiano?
Nel recepire questa norma, ha inutilmente complicato la faccenda e anzi ha trovato un modo per mantenere un controllo sull’accesso alla rete pubblica, infatti la norma approvata il 22 ottobre riporta il vincolo, per gli utenti, di servirsi di imprese abilitate (che verranno inserite in un registro di futura creazione) per “installazione, di allacciamento, di collaudo e di manutenzione delle apparecchiature terminali”.

E’ sempre necessario servirsi di queste imprese? Non è detto, infatti la norma all’art.2 lettera F riporta che “i casi in cui, in ragione della semplicità costruttiva e funzionale delle apparecchiature terminali e dei relativi impianti di connessione, gli utenti possono provvedere autonomamente alle attività di cui al comma 1.”

Il problema sorge perchè il governo si riserva 12 mesi per istituire il registro e stabilire i requisiti di competenza per le imprese abilitate.

Distinguere tra imprese registrate e non registrate potrebbe portare ad una restrizione del mercato, che era proprio quello che voleva evitare la direttiva comunitaria, e in questo caso saremmo di fronte ad un palese aggiramento delle norme comunitarie.

Cosa succede a chi decide di installarsi un router o una apparecchiatura senza rivolgersi a ditte specializzate? Il Governo ha previsto una multa che va da 15.000 a 150.000 euro.

E’ facile immaginare che i piccoli operatori del settore si troveranno di fronte ad altra burocrazia e che potrebbero vedere lievitare i costi per continuare ad operare, mentre i colossi del settore non avranno problemi non solo a mantenere la loro posizione di dominio, ma, possibilmente, espanderla ancora di più a spese dell’utente finale.

A questo punto possiamo osservare che, se è vero che tutto parte da una direttiva europea, il governo, nel recepirla, è riuscito ad aggirarla. Mantenere rigido l’accesso a internet e alle reti pubbliche di comunicazione, demoralizzando coloro che vogliono avviare una propria attività legata all’accesso e alla commercializzazione di prodotti e strumenti legati ad internet, va invece a vantaggio dei soliti big del settore.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catanese

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No alla violenza sempre, ma la politica si confronti con il disagio degli studenti

postato il 25 Novembre 2010

Quelle uova su Palazzo Madama, il tentativo da parte degli studenti di entrare con la forza all’interno del Senato della Repubblica  sono un segnale allarmante che non va trascurato. E’ un segnale d’allarme non solo perché fa pensare ai tempi bui delle proteste in Italia, quando la violenza gonfia d’ira si impadroniva delle masse studentesche, ma perché la rabbia degli studenti ha preso di mira la sede del Senato.

Non so se è stato il caso o se Palazzo Madama è stato scelto perché in quel momento la sede istituzionale più vulnerabile, ma è certo che questo gesto estremo assume contorni inquietanti perché ad essere oggetto della rabbia dei manifestanti non è tanto il Palazzo del Governo ma la sede di una delle due camere, il simbolo del potere legislativo, il luogo della politica per eccellenza.

La condanna di gesti violenti e del mancato rispetto delle regole di convivenza civile e delle istituzioni democratiche deve essere ferma e chiara, tuttavia non si può ignorare il disagio di giovani studenti e lavoratori e il messaggio che lanciano alla politica. Questa non è una delle tante contestazioni, a cui ogni buon politico è pronto, e si va anche oltre alla sfiducia nella politica di cui spesso ci parlano i sondaggi o alle classiche lamentele da bar sui governanti; qui ci troviamo davanti ad un lancio di uova non dissimile a quelli che si riservano alle peggiori compagnie di avanspettacolo. E’ sufficiente salire su di un autobus o fare la coda alla posta per sapere che i politici sono percepiti dalla gente come sgangherate comparse di un assurdo teatrino. Non ci troviamo dunque davanti a un qualunquismo di ritorno ma di fronte ad un malessere diffuso verso una classe politica sempre più lontana dal Paese, impegnata in liti incomprensibili e parecchio involgarita.

La politica non può fare finta di niente, non può limitarsi a condannare la violenza e il mancato rispetto delle Istituzioni quando quello stesso Parlamento,  coperto oggi di uova marce, è mortificato nelle sue funzioni e oltraggiato dai comportamenti insulsi dei suoi componenti: prostituzioni politiche, scazzottate da bassifondi, “vajasse” e sacchi di immondizia tirati in aula. Non si può chiedere il rispetto delle Istituzioni se le stesse non sono rispettate dai loro componenti. Alla stessa maniera non ci potrà essere rispetto delle Istituzioni se queste non saranno capaci di rispettare le persone, di fare attenzione ai loro problemi e alle loro necessità (così magari da costringerli a scappare all’estero).

E’ importante in questo momento delicato che la Politica non si chiuda nei palazzi del potere ma presti ascolto al grido del popolo, perché lo sbaglio più grande che può fare in questo momento è rispondere infastidita come la regina Maria Antonietta che liquidò il popolo in tumulto con il celebre: “dategli delle brioches”. Ed è inutile ricordare come finì.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Arsenico nell’acqua, non basta aumentare i limiti di legge

postato il 25 Novembre 2010

Capiamo bene prima cos’è l’arsenico: è un elemento chimico presente naturalmente in alcune rocce della nostra penisola, soprattutto sulle Alpi e vicino bacini vulcanici. L’acqua lo discioglie in piccole quantità e lo trasporta con se fino nella catena alimentare. È molto pericoloso per la salute umana, tanto che l’Unione Europea ho posto un limite massimo di 10 microgrammi per litro nell’acqua potabile. Una esposizione continua a quantitativi superiori a quelli stabiliti dalla legge, può portare alla formazione di malattie, anche gravi come il cancro.

Secondo il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, gli italiani che non potranno usufruire dell’acqua potabile, alle condizioni attuali, saranno 100 mila. Perché? Negli acquedotti che riforniscono questi cittadini si è riscontrata una forte presenza di arsenico, oltre i limiti stabiliti dalle normative dell’Unione Europea, a cui il ministro aveva chiesto un’ulteriore deroga, per nascondere ancora le conseguenze gravissime che una situazione del genere può creare a queste migliaia di cittadini.

Fino ad ora l’Italia ha goduto di una deroga che permetteva agli acquedotti pubblici di fornire acqua con un massimo di 50 mg di arsenico per litro. Le deroghe sono in atto dal 2001, ed ogni tre anni se n’è chiesto il rinnovo, fino al limite del 2011, rispettato rigorosamente dell’Ue. Ora il rinnovo della deroga è stato negato e il ministro con chi se l’è presa? Con se stesso per non essere riuscito a risolvere questo problema? Con i precedenti suoi colleghi ministri? Con gli acquedotti pubblici e privati che se ne infischiano di migliorare le proprie strutture? Di certo no, se l’è presa con l’Unione Europea che ha negato un rinnovo della deroga. Bel modo di prendersi le proprie responsabilità!

Secondo il ministro molto è stato fatto per fornire acqua a norma alla popolazione, fatto sta che ancora oggi il ministro si appella alle regioni per concertare la costruzione di dearsenificatori. Il ministro conferma che il problema della presenza di arsenico nelle acque è soprattutto rilevato nelle zone alpine e prealpine, perché presente in quelle particolari rocce, problema rilevato anche dall’altra parte dei monti e più precisamente in Germania. Ma allora perché la maggior parte della popolazione a rischio arsenico è nella regione Lazio? L’acqua che bevono i laziali viene dalle Alpi? No, e allora perché sviare l’opinione pubblica?

Questa è una pura questione di inefficienza amministrativa dovuta al continuo rinvio delle questioni. Il Trentino ha risolto efficacemente il problema anche se con alcuni ritardi, nel Lazio invece no. 

Secondo il capogruppo dell’Unione di Centro nella Commissione Ambiente, Armando Dionisi e Roberto Rao, ci potrebbe essere molta più gente senza acqua potabile se si pensa che nel solo Lazio, regione più colpita da questa situazione, “91 sindaci delle province di Roma, Latina e Viterbo potrebbero essere addirittura costretti a firmare il divieto di bere l’acqua del rubinetto, provvedimento che riguarderebbe quindi ben più delle 100 mila persone stimate dal ministro Fazio”. In tutta Italia i Comuni interessati sono 128: 16 in Toscana, 10 in Trentino, 8 in Lombardia, 3 in Umbria, più i 91 del Lazio, per un totale di 250 mila famiglie, altro che 100 mila cittadini come dice il nostro ministro!

“Riceviamo e pubblichiamo” di Antonio Di Matteo

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