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Asia Bibi, se i cuori si induriscono

postato il 28 Marzo 2011

Nel cuore dell’Asia c’è un paese, il Pakistan, dove è in vigore una assurda legge sulla blasfemia che prevede l’ergastolo per chi offende il Corano e la pena di morte in caso di offesa a Muhammad. Prima del 1986, anno di entrata in vigore della legge, non vi erano in Pakistan denunce di blasfemia ma dopo in 20 anni ci sono stati circa 1.000 casi, mentre 70 persone, solo accusate di blasfemia, sono state vittime di esecuzioni extragiudiziali. Ma bisogna annoverare in questa tragica lista anche i nomi di quanti sono morti per essersi soltanto opposti alla legge sulla blasfemia: il  musulmano, Salman Taseer, governatore del Punjab (il 4 gennaio scorso dalla propria guardia del corpo) e del cattolico, Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze del Governo pakistano (il 2 marzo per mano di gruppo di uomini armati). Questo accade nel cuore dell’Asia. Poi c’è quanto accade nel cuore di Asia. Asia Bibi è una donna pakistana di 45 anni, madre di cinque figli, che è stata condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta Muhammad. Asia è stata accusata dalle vicine di casa che non volevano farle toccare il recipiente per la raccolta dell’acqua ed ora si trova  nella cella di isolamento del carcere di Sheikpura, nel Punjab, gravemente malata,  impaurita per la sua sorte e quella dei suoi familiari ed amici e in attesa della morte. Ma nel cuore di Asia, come racconta in una straordinaria intervista al quotidiano “la Repubblica”, non alberga solo la paura ma c’è anche posto per la speranza, speranza che è fatta di cose semplici come potere organizzare una cena per la propria famiglia e di cose grandi come vedere abolita la legge sulla blasfemia che a detta di Asia “fa male ai cristiani e ai musulmani”. Asia Bibi ha anche un altro desiderio: vorrebbe incontrare il Papa, sa infatti che ad un Angelus Benedetto XVI ha parlato di lei ed è stata una cosa che ha riempito il suo cuore di speranza e voglia di vivere. Tutto ciò accade nel cuore dell’Asia e nel cuore di Asia, ma ciò che preoccupa di più è la durezza dei cuori degli uomini e delle donne che vivono nel libero Occidente. In Italia dove la questione femminile è ritornata al centro dell’attenzione anche con manifestazioni di piazza, nessuno ha sentito la necessità di parlare di Asia Bibi. Forse è troppo cattolica o forse non è mai stata ad una festa ad Arcore. Ma se la vicenda di  Asia Bibi non tocca il nostro cuore e non fa fremere le nostre coscienze che senso hanno le manifestazioni e gli sproloqui per la dignità delle donne? Perché i cuori di tante donne europee non sono con quello di Asia, perché sono così induriti? La drammatica risposta a questo quesito sta forse in una pagina evangelica: “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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I responsabili s(‘)offrono: adottane uno

postato il 26 Marzo 2011

Il video che segue è un “fuori onda” della trasmissione Exit. L’onorevole Pionati,  in tono confidenziale, si lascia andare a considerazioni politiche (non si vuole fare rappresentare da Saverio Romano) e a giudizi al limite del razzismo sui siciliani.

E poi succede che mentre guardi il telegiornale vedi i loro volti tristi, accigliati a volte anche agitati e il cuore ti si stringe, non riesci a parlare e vorresti fare qualcosa per loro. Che avete capito non sto parlando dei giapponesi, ma dei responsabili. Sì, proprio loro i coraggiosi parlamentari che, sprezzanti del pericolo e soprattutto dei loro elettori, a dicembre con il loro voto hanno salvato il governo Berlusconi. Quello fu un vero trionfo: tutti parlavano di Domenico Scilipoti e dell’agopuntura, Antonio Razzi che si sentiva escluso nel partito di Di Pietro ora aveva trovato una nuova casa politica e tanti amici che lo abbracciavano e gli davano pacche sulle spalle, addirittura Silvano Moffa e gli altri ex finiani ogni volta che entravano nell’emiciclo della Camera si prendevano applausi e cori che manco la Nazionale dopo la vittoria dei mondiali di calcio.

Era bello vederli tutti insieme camminare verso nuove responsabilità da prendere, e con sempre nuovi compagni: io Tarzan, tu Jane e Noi Sud e poi anche i Popolari di Italia domani che sanno che è meglio un uovo oggi che un’Italia domani. Era meraviglioso s’offrivano tutti. Ma i tempi sono cambiati, oggi i responsabili soffrono: tra tutti è stato premiato solo Saverio Romano gli altri aspettano ancora che l’orchestra di Palazzo Grazioli intoni “aggiungi un posto al tavola”. L’attesa però logora, così ti capita di raccogliere lo sfogo dell’ex mezzobusto del Tg1 Francesco Pionati che da “nordico” di Avellino dichiara improponibile al nord il siciliano Romano, oppure ti ritrovi l’invito per la convention del movimento di Scilipoti, ma è ancora Razzi a toccarti il cuore quando scopri che i suoi stessi compagni, proprio quelli che credeva amici, gli hanno fregato il posto di segretario d’aula. Luciano Sardelli capogruppo dei responsabili, ma soprattutto psicoterapeuta, vede l’identità bambina dei suoi compagni che bramano la poltrona come i bimbi la pappa. Come possiamo resistere davanti a questi bimbi senza sorriso? I responsabili soffrono, adottane uno anche tu, dona una poltrona, una sedia anche uno sgabello. Fermiamo la tristezza , facciamo vincere la responsabilità.

Mastro Titta

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“Magica Italia”, ma a Lampedusa c’è ben poco di magico

postato il 24 Marzo 2011

Il Presidente del Consiglio è tornato agli spot. Non fraintendete, Berlusconi è ancora a Palazzo Chigi e non ha deciso di tornare ad occuparsi di televisione, più semplicemente è il nuovo testimonial dello spot “Magica Italia” con cui il ministero del Turismo, della fedelissima Michela Vittoria Brambilla, intende rilanciare il turismo italiano. Nello spot Silvio Berlusconi, sulle note di “un amore così grande”, racconta le bellezze italiane e annuncia ai turisti di tutto il mondo che c’è una “magnifica Italia da scoprire ed amare” con tanto di immagini della “magica Italia”: Venezia, Firenze, Roma, Napoli. Il ministero del Turismo ha scelto di puntare sull’arte e la cultura per rilanciare il turismo in Italia, anche perché bellezze naturali come le spiagge dell’Isola di Lampedusa in questo momento sono ben poco magiche.

La più grande delle isole Pelagie è infatti al collasso: gli immigrati presenti sull’isola sono ormai tanti quanto gli isolani cioè circa cinquemila, non ci sono strutture per ospitarli e le condizioni igieniche e sanitarie cominciano ad essere seriamente precarie. Ma l’emergenza Lampedusa non è solo umanitaria ma anche economica perché non solo l’isola sta affrontando uno sforzo economico senza precedenti, ma vede seriamente compromessa anche l’imminente stagione turistica estiva. Quanti turisti decideranno di passare le loro vacanze estive in un mega campo profughi? Molto pochi purtroppo. E mentre l’assessore al turismo della Regione Siciliana fa un bilancio catastrofico per Lampedusa, il governo si compiace nei suoi spot e continua a procrastinare gli interventi necessari per soccorrere l’ultimo lembo d’Italia. La priorità in questo momento drammatico non è l’aumento di posti al governo per soddisfare le voglie dei “responsabili” ma il soccorso a Lampedusa. Un soccorso che non passa solo dal trasferimento di alcuni immigrati o dall’evitare di costruire una tendopoli o altro tipo di campo profughi sul territorio isolano, ma che si deve concretizzare su più vasta scala con una azione del governo italiano che miri a fermare il flusso di immigrati tunisini, e non libici come la Lega tenta di far credere. Occorre una seria analisi della situazione tunisina che comporti un intervento, anche presso le istituzioni internazionali, per aiutare questo Paese che da solo non riesce a reggersi sulle sue gambe e che conseguentemente non è in grado di fermare l’emorragia di disperati verso le nostre coste. Purtroppo nulla di tutto questo è avvenuto. Lampedusa è ancora in piena emergenza mentre Berlusconi decanta le bellezze d’Italia proprio come un certo Nerone cantava Troia mentre Roma bruciava.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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“Piccinerie” leghiste e grandi testimonianze di Unità, la lezione del 17 marzo

postato il 24 Marzo 2011

Al consiglio comunale di Como l’ennesima e inopportuna furibonda lite sul Tricolore. Il consigliere PD Vittorio Mottola, dopo aver sottolineato con un discorso l’assenza della Lega Nord a tutte le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia e avendo precisato che il “tricolore è l’unica cosa che rimane alle famiglie dei ragazzi italiani che muoiono in guerra”, ha regalato una bandiera italiana all’assessore leghista al decoro Diego Peverelli. La scena che ne segue è degna del film “l’Esorcista” quando all’indemoniato viene gettata addosso l’acquasanta: l’assessore al decoro getta in faccia al collega del PD il Tricolore, rimproverandolo per il gesto “provocatorio e antidemocratico” e lamentando il mancato rispetto delle posizioni leghiste da parte delle altre forze politiche. L’assessore, visibilmente infervorato, viene invitato a lasciare l’aula e lui, nel farlo, apostrofa il consigliere Mottola con un sonoro “vergognati, terun de m…”.

A parte le ovvie considerazioni su questa vicenda, verrebbe da pensare: “lasciamo perdere, sono fatti isolati prodotti da persone poco intelligenti”. Questa volta credo che un’affermazione del genere sia del tutto fuori luogo. Non siamo davanti ad un fatto isolato ma all’ennesimo gesto di irriverenza, per non dire franco vilipendio, che gli esponenti della Lega Nord manifestano nei confronti dei simboli dell’Unità Nazionale, dopo l’opposizione alla Festa Nazionale del 17 Marzo passando per il comportamento dei consiglieri regionali lombardi della Lega Nord, andati al bar a prendere il caffè mentre in aula veniva suonato l’inno di Mameli. Ciò che però fa veramente arrabbiare è che questi presunti secessionisti non si pongano il problema di “Roma Ladrona” quando si tratta di ricoprire incarichi pubblici lautamente retribuiti. Forse c’è un problema di coerenza.

Oltre le piccinerie di una certa politica però bisogna fare un’ulteriore riflessione. L’Italia è unita dal 1861, ma qualcuno ha mai pensato ad unire gli Italiani? La Lega Nord non è l’unica forza politica di chiaro stampo secessionista presente in Italia: penso ai sardi dell’IRS ma anche a chi, nel Sud, inneggia al ritorno del Regno delle Due Sicilie, e potrei citarne altri. Cosa c’è dietro?

La risposta probabilmente è da cercare in un’Italia profondamente eterogenea, fatta di realtà politiche, ambientali e socio-culturali differenti. E’ sufficiente pensare al divario Nord-Sud, che esiste e non si può certo negare o spiegare in maniera semplicistica, alle minoranze linguistiche forse non abbastanza tutelate, alle peculiarità geografiche che spesso, anziché diventare ricchezza, sono fonte di difficoltà e divisione. Che alcune forze politiche facciano demagogia credo sia lapalissiano, ma l’errore di fondo, il nostro errore, è trascurare queste problematiche.

Come uscirne? Credo che se vogliamo “fare gli Italiani” dobbiamo convincerci che non siamo tutti uguali e abbiamo storie, territori ed esigenze profondamente diverse. L’Unità d’Italia si realizza solamente nel momento in cui ricchezze e problemi di ogni regione diventano patrimonio comune. Non possiamo parlare d’Italia Unita, e non posso definirci davvero italiani se non pensiamo che le bellezze di Firenze, di Roma o della Calabria siano una ricchezza di tutti , e se parimenti non crediamo davvero che la mafia, i rifiuti in Campania o le difficoltà per la ricostruzione de L’Aquila non siano un nostro problema.

Solo se inizieremo a considerare ogni angolo d’Italia come casa nostra, solo quando saremo capaci di condividere il nostro benessere ma anche i nostri problemi, solo allora potremo davvero parlare di italiani uniti oltre che di Italia unita.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maria Pina Cuccaru

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Parmalat: il latte è scaduto

postato il 22 Marzo 2011

Sembra che sia giunta al termine la battaglia per il controllo di Parmalat, infatti Lactalis sale al 29% in Parmalat grazie ad un accordo con i tre fondi esteri (i quali fino a due giorni prima avevano pubblicamente dichiarato di preferire una soluzione “italiana”) che detengono il 15% del gruppo lattiero italiano. In un comunicato Lactalis rende noto di aver raggiunto un accordo con i fondi Zenit, Skagen e Mackenzie Financial per l’acquisto di tutte le azioni Parmalat da essi detenute che rappresentano il 15,3% del capitale al prezzo di 2,80 euro per azione.

Questa notizia è il suggello della incapacità di questo governo di determinare una politica economica che sviluppi l’economia e le imprese italiane.

Cosa ha fatto il governo italiano in questa vicenda? A mio avviso solo danni.

E’ un giudizio duro, senza alcun dubbio, ma fin dall’inizio e molto prima di altri, avevamo fatto rilevare l’incapacità del governo a gestire questa vicenda in particolare e la mancanza di una politica economica organica.

Il governo prima è intervenuto bloccando i 3 fondi esteri, che chiedevano di sostituire i vertici dell’azienda per fare acquisizioni o distribuire l’enorme liquidità di Parmalat (ottenuta tramite le varie azioni legali contro le banche). Poi, quando lo scontro è entrato nel vivo, si è defilato.

Infine, quando i francesi di Lactalis sono scesi in campo, in fretta e furia il Governo ha pensato di entrare in campo. Come? Con i soliti spot elettorali e con norme ad hoc (parafrasando le vicende dei provvedimenti in campo della giustizia, potremmo dire con “norme ad aziendam”) per evitare che i francesi potessero scalare la società.

Ovviamente i Francesi non sono rimasti a guardare e mentre si discuteva per una cordata italiana, per un campione nazionale, per una norma e così via, hanno fatto la cosa più semplice: hanno ragigunto un accordo con i fondi, per raggiungere una quota di controllo sufficientemente ampia da metterli al riparo da altre cordate. Per altro, questa quota è al 29%, sotto la soglia di OPA obbligatoria. Quale è il possibile scenario?

A mio avviso, la partita si è chiusa, a meno che non si formi davvero una cordata italiana che voglia lanciare una OPA per acquistare Parmalat. Ma è credibile che si materializzino in meno di un mese questi imprenditori italiani per lanciare una OPA che verrebbe a costare circa 3 miliardi di euro?

L’unico big italiano capace di attuare una cosa simile è Ferrero, ma su questa ipotesi gli analisti sono dubbiosi: le due aziende operano in rami differenti e le uniche sinergie sarebbero nella distribuzione dei prodotti e merende da frigo; un po’ poco per giustificare una acquisizione che si preannuncia difficile e particolarmente onerosa.

In tutto questo, chi fa le spese è il piccolo risparmiatore, ma soprattutto l’economia italiana che ha dimostrato ancora una volta di essere ormai terra di conquista (salvo poche eccezioni come Fiat, Unicredit e Finmeccanica) e che paga il dazio della mancanza di una politica economica.

Ed è questo il punto: un governo degno di tale nome non dovrebbe solo limitarsi a fare la stretta contabilità come Tremonti, né dovrebbe limitarsi a fare una norma ad hoc di volta in volta. Un governo serio dovrebbe lanciarsi nell’ideare e garantire una politica economica che si fonda su investimenti produttivi, norme certe per incoraggiare gli investimenti italiani ed esteri e che sia da supporto per le aziende italiane: purtroppo basta andare all’estero per rendersi conto che i proclami restano appunto tali. Si parla di lanciare il turismo italiano, ma poi si nota che l’Italia è assente dalle grandi fiere del turismo, e non stringe accordi con le Camere di commercio estere.

A questo punto, mi chiedo se, l’unico posto dove trovare il governo e interloquire con lui, non siano i festini di Arcore.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Politica estera italiana: fioccano bombe e dubbi

postato il 20 Marzo 2011

Mentre le bombe e i missili della coalizione fioccano su Tripoli e sulle forze libiche fioccano anche dubbi e domande. Dubbi e domande, che non mettono in discussione la necessaria azione militare contro il regime di Gheddafi, ma la gestione internazionale e italiana della crisi. Come per le crisi degli altri paesi del Maghreb la comunità internazionale  è apparsa impreparata ed inadeguata ad affrontare la situazione e ha esitato troppo nello schierarsi accanto a chi reclamava pane e libertà. Accanto all’impreparazione delle diplomazie nazionali l’insufficienza, ormai cronica, delle istituzioni internazionali: l’Onu si è dimostrato ancora una volta una organizzazione non più all’altezza dei compiti e delle aspettative, mentre l’Unione europea si è nuovamente dissolta davanti ai personalismi diplomatici dei paesi europei più importanti.

Questo generale quadro di debolezza diplomatica impone una riflessione perché non è detto che debbano essere sempre i capi di stato maggiore con le loro armi a dover togliere le castagne dal fuoco ai governi occidentali. La soluzione diplomatica delle crisi, è bene ricordarlo, deve essere sempre la prima opzione, ma ciò richiede preparazione, attenzione e collaborazione, tutte cose che evidentemente in questo caso sono mancate. Particolarmente opaca è a tratti imbarazzante è stata la politica estera del governo italiano. Il governo è stato latitante nelle crisi tunisina ed egiziana ma ha dato il peggio di sé nella crisi libica, non solo per le imbarazzanti relazioni pregresse con il regime libico ma per le incertezze dimostrate davanti al precipitare della situazione.

Il governo italiano dapprima ha perseguito una incomprensibile accondiscendenza verso la Libia di Gheddafi, con la firma di un trattato oneroso ed umiliante e durante la recente crisi ha svolto un ruolo decisamente marginale, per usare un eufemismo, subendo l’iniziativa francese ed inglese. Il decisionismo francese ha sbloccato la situazione ed ha probabilmente evitato la caduta di Bengasi e la vittoria del Rais, e ha dato forza e consistenza alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite attorno alla quale ha raccolto una coalizione di “volenterosi”. Anche di fronte a questa iniziativa il governo italiano, pur concedendo l’utilizzo della basi aeree e “iscrivendosi” nella coalizione, ha mantenuto una sorta di ambiguità (diamo le basi ma non ci alziamo in volo) che non consente neanche al Colonnello Gheddafi di sapere se siamo nemici o amici. Evidentemente a Roma sono più impegnati con i “responsabili” che con i “volenterosi”.

Nelle prossime ore le bombe continueranno a fioccare così come i dubbi e le domande: che progetti ci sono per la Libia? Quando le armi taceranno, e si spera presto, chi sostituirà Gheddafi? Ma soprattutto chi metterà le mani sul petrolio libico? L’ardua sentenza, per questa volta, non dovrebbe andare ai posteri ma, per quel che riguarda l’Italia, al Presidente del Consiglio e al Ministro degli esteri.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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La forza morale di un Presidente

postato il 19 Marzo 2011

La voce rotta dalla commozione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso al teatro Regio di Torino è l’immagine più bella che i festeggiamenti per il cento cinquantenario dell’Unità d’Italia ci hanno consegnato. Il Capo dello Stato si è lasciato andare al culmine di un passaggio chiave, fondamentale, il rispetto del dovere di umiltà da parte della classe politica e di chi ricopre incarichi istituzionali nel nostro Paese. Un sussulto di dignità totale, un monito che solo un uomo della sua altezza morale può fare. Verrebbe da chiedersi: perché commuoversi? In fondo è il compito del Presidente strigliare un po’ la politica, dare lezioni di moralità e responsabilità. E’ proprio questa convinzione, questa consapevolezza del suo ruolo, che rende sorprendente la sua reazione: il Presidente è come un notaio che deve tenere d’occhio le regole, guarda alla forma, è una figura di garanzia. Diventiamo quasi incapaci di comprendere la straordinaria umanità del personaggio, un uomo che si appassiona, che trasforma la retorica sull’Unità in vero e autentico amor patrio.

Un elogio di Giorgio Napolitano sarebbe fine a se stesso, non farebbe comprendere la capacità di quest’uomo di riunire tutti gli italiani in un solo spirito nazionale, cosa che ha preparato meticolosamente con grandissimi sforzi nei mesi scorsi. Un elogio, un’agiografia prenderebbe la piega della piaggeria, del politically correct, mentre l’impegno speso dal nostro Presidente va analizzato a tutto tondo, per il contenuto, lo stile, gli scopi perseguiti.

Nella sua visita a Torino non si è risparmiato: ha incontrato tutti, ha partecipato a tutti gli eventi in modo instancabile. Si è concesso il più possibile alla gente, la quale non a caso gli ha tributato onori grandissimi, raccogliendosi intorno a lui per festeggiarlo, insieme all’Italia. Anche io ho provato un’emozione fortissima incontrandolo, in mezzo a tanti altri cittadini, alla Galleria d’Arte Moderna, dove si è recato per inaugurare un’opera scultorea. Si è trattenuto poco, giusto per il taglio del nastro e due parole con i promotori dell’iniziativa, ma si è lasciato andare al saluto della folla, tante mani strette, passi in mezzo alla gente. Tra questi, un uomo intervistato per l’occasione da Rai News ha dichiarato: “Napolitano è l’ultimo baluardo contro il degrado”. Probabilmente è davvero così, e così si spiega la sincera commozione nel discorso. E’ un uomo che soffre per cosa è diventato il nostro Paese, la cui classe politica innalza muri sempre più alti verso i cittadini, sempre più lontana e difforme dalla realtà che chiede rigore, rispetto delle regole, buonsenso. Ecco perché il richiamo all’umiltà: la politica, le istituzioni non possono prescindere dai cittadini, cui devono rendere conto, non possono comportarsi secondo logiche private e autoreferenziali. L’umiltà è una parola tanto antica nella lingua italiana quanto nuova nel lessico politico. Chi pensava più all’umiltà? Un politico umile? Sembra una contraddizione in termini. E invece Napolitano con orgoglio e passione è riuscito a riportare dinanzi a noi una questione fondamentale. Quello scatto delle braccia rivela una convinzione fortissima, come volesse dire: “Italia, riprenditi la tua dignità!” attraverso un rinnovato rispetto dei doveri. E se le istituzioni devono dare il buon esempio, si deve cominciare da lì.

Il recupero di questi valori sarebbe il modo più autentico per onorare chi ha dato la vita per restituire l’Italia agli italiani, chi si è speso per difenderla e chi oggi combatte per farla destare dal sonno della sua coscienza.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

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I copti tra l’incudine mubarakiano e il martello salafita

postato il 16 Marzo 2011

Una testimonianza diretta dall’Egitto.

Mentre gli occhi dei media europei e americani sono tutti puntati sull’Egitto post-rivoluzionario che si avvia verso una massiccia partecipazione alla cosa pubblica, lontano da telecamere e taccuini è in atto una tragedia che si consuma in silenzio. La cronaca è lunga e tediante ma non si può farne a meno se si vuole capire le dimensioni di questa tragedia. Già nel mentre i giovani rivoluzionari di piazza Tahrir gridavano “abbasso il dittatore”, a Rafah, al confine egiziano con la Striscia di Gaza, veniva bruciata una chiesa copta e sui suoi muri venivano scritte, con bombolette spray, la shahada islamica e insulti ai cristiani “politeisti”: “No ai nasara (termine coranico per cristiani) in terra d’Islam”; nelle stesse ore, in un villaggio nel sud dell’Egitto venivano ammazzate trenta cristiani (tra cui un bambino di 3 mesi); veniva attaccata la chiesa di San Giorgio in un piccolo villaggio vicino Tahta perché i parrocchiani avevano osato costruire un campanile; ad Assyut un sacerdote copto e un gioielliere cristiano venivano sgozzati. Lo stesso esercito, che non ha ostacolato la rivoluzione e si è schierato a favore di un “nuovo” Egitto, ha attaccato il monastero di Abba Pishoy nel deserto occidentale per un muro di cinta irregolare (malgrado si trovi in mezzo a un oceano di edilizia abusiva). Gli ultimi attacchi: 4mila musulmani bruciano e distruggono a martellate una chiesa a Sol, piccolo villaggio a 80km dal Cairo dove era corsa voce di una relazione sentimentale tra un cristiano e una musulmana (vietata dalla shari‘a). Gli echi di questo assalto di massa si sono avuti sul colle del Muqattam, un quartiere del Cairo a prevalenza cristiana, dove gli zabbalin, responsabili della raccolta dei rifiuti urbani, sono stati aggrediti da un gruppo di musulmani armati mentre manifestavano per la chiesa distrutta a Sol: tredici i morti e più di 110 i feriti.

Non si sa chi si celi esattamente dietro questi attentati. C’è chi parla di elementi dell’ex regime che vorrebbero seminare il caos nel Paese. Giocando con il fuoco confessionale. Questo è, infatti, l’unico modo sicuro per mettere in subbuglio l’Egitto e per far passare alla gente il messaggio: si stava meglio quando si stava peggio. La tecnica è nota: uccidere il copto (inerme) per accusare il musulmano estremista. Così pare sia andata anche con l’attentato di Alessandria del capodanno 2011 quando sono morte circa trenta persone fatte saltare in aria da un’autobomba posizionata all’uscita dalla Chiesa. Per quell’attentato è attualmente sotto accusa l’ex ministro degli Interni, Habeeb el Adly, che avrebbe assoldato un gruppo salafita egiziano chiamato “I soldati di Dio”. A facilitare questa continua persecuzione è l’assenza delle forze dell’ordine: l’Egitto è, infatti, ancora nel caos. L’insicurezza regna ovunque. La polizia non è infatti ancora ritornata del tutto nei quartieri e i conflitti a fuoco tra delinquenti sono all’ordine del giorno, soprattutto nelle grandi città. Aggressioni in casa, furti, intimidazioni a mano armata, appropriazione indebita di immobili e negozi, rapine, omicidi sono il normale bilancio quotidiano in questi giorni terribili. L’esercito, che è ancora schierato, assolve anche le funzioni di ordine pubblico, ma solo parzialmente. Difendersi è compito dei cittadini e in questo farwest è chiaro che a rimetterci sono i più deboli: i copti. Non bisogna pensare però che dietro ogni fatto di cronaca contro i copti ci sia lo Stato. Lo Stato stesso, quando è mandante, fa leva sui sentimenti di odio irrazionale, profondo e indomabile che dominano i cuori di certi musulmani.

L’esercito stesso sta cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte: attacca il monastero di Abba Pishoy ma promette di ricostruire la chiesa di Sol a sue spese. La ricostruzione pare sia davvero iniziata ed è un buon segno. La costruzione delle chiese in Egitto, infatti, non solo è estremamente complessa burocraticamente – anche solo per costruire una porta ci vuole l’autorizzazione del governatore della regione (!) che spesso non arriva mai – ma anche a totale carico della diocesi, mentre le moschee sono costruite spesso con il denaro pubblico. Che l’esercito si incarichi della ricostruzione di una chiesa è quindi davvero una buona novità.

Ma resta l’unica. Infatti i problemi reali rimangono e vanno ben al di là della costruzione di una Chiesa. E’ infatti in gioco la mentalità degli egiziani. Se il regime se n’è andato (e neanche del tutto, a quanto pare), non se n’è andata una diffusa mentalità intollerante e dittatoriale capace di ricreare un tiranno e un regime in quattro e quattr’otto.

Per questo l’educazione è la soluzione numero uno al problema confessionale. Bisogna insegnare alle nuove generazioni ciò che accomuna copti e musulmani, non ciò che li divide. Copti e musulmani mangiano lo stesso cibo, vivono negli stessi quartieri, ascoltano la stessa musica, ballano le stesse danze e hanno molti eventi storici che li accomunano. Copti e musulmani devono separarsi solo davanti alla porta della chiesa e della moschea e devono tornare a mescolarsi e lavorare e cooperare quando escono dai loro luoghi di culto. Premere sul nazionalismo (senza arrivare alla malattia dello sciovinismo) significa attenuare le tensioni confessionali e offrire un nuovo campo di azione, l’Egitto, che distrae i “contendenti” dal farsi la guerra. Se si insegna al bambino il rispetto dell’altro in quanto egiziano-come-te che ha diritto a credere in ciò che vuole purché ciò non vìoli la legge (e arriviamo anche alle legge…), la situazione migliorerà fin da subito e quando le attuali generazioni saranno passate a miglior vita, l’Egitto sarà più tollerante e più unito. Se si insegna al bambino un po’ di storia del cristianesimo egiziano, affianco all’onnipresente islam (lo studio dell’islam in tutte le salse è obbligatorio per i cristiani) in quanto parte integrante della storia di questa Nazione, le speranze di un cambiamento non potranno che rafforzarsi. Un cambiamento che si realizzerà presto se si insegna, fin da ora, al bambino che la religione riguarda il nostro intimo rapporto con Dio e che la Nazione, essendo super partes, garantisce la pacifica convivenza tra tutti i cittadini, uguali davanti alla Legge.

La Legge, altro punto spinoso. Fino a che la Legge non sarà uguale per tutti, nulla cambierà. I copti vivono ormai da decenni nella più totale passività, disinteressati agli affari pubblici, perché sanno che non possono contare sullo Stato né influenzare il corso degli eventi. Neanche quelli giudiziari. Infatti, chi si macchia di crimini contro i copti non è mai punito. In cinquant’anni di crimi continui, nessuno è stato infatti mai condannato penalmente. Probabilmente il primo a esserlo sarà l’attentatore della chiesa di Nagaa Hammadi che uccise sei giovani copti all’uscita dalla liturgia di Natale del 2010 che i copti festeggiano il 7 gennaio. Ma c’è voluta la rivoluzione per fare emettere la sentenza di condanna. Se i Tribunali funzioneranno davvero senza distinzione di religione, come la Costituzione egiziana afferma, i musulmani intolleranti avranno molto meno voglia di fare i padroni di casa e i copti avranno molta più energia per interessarsi alla cosa pubblica perché non dovranno temere ritorsioni. La questione ovviamente riguarda non solo la giustizia ma anche la legislazione. Bisognerà infatti creare e ricreare leggi laiche che siano effettivamente applicabili a tutti “senza distinzione di religione”. Da Sadat in poi, il regime egiziano ha prodotto una serie di leggi che si basano sulla tradizione legislativa religiosa islamica per compiacere i musulmani radicali. Che ovviamente sono incontentabili. Una nuova legislazione significherebbe che le regole saranno uguali per tutti, così come anche i diritti. Significherebbe trattare i copti come pieni cittadini ed esseri umani, e non come cittadini a metà o come popolazione conquistata, come se dal VII secolo non fosse cambiato niente (vedi tutta la storia della dhimmitudine). Tuttavia, fino a che l’articolo 2 della Costituzione (che afferma che la sharia è la fonte del diritto) resterà, ciò non sarà possibile. E i Fratelli Musulmani e i salafiti sono disposti a tutto purché questo articolo resti per sempre: è la base su cui costruire uno stato islamico. Le due correnti islamiche hanno, infatti, invitato a votare “sì” al prossimo referendum per gli emendamenti costituzionali del 19 marzo in quanto obbligo islamico! Il perché è subito detto: gli emendamenti non hanno toccato l’articolo 2. Mentre i Fratelli seguono il proverbio “chi va piano va sano e va lontano” e non hanno fretta di mangiarsi la torta, i salafiti sono più irruenti e si sono detti pronti a impugnare le armi (e non nel senso metaforico) se solo l’articolo 2 verrà sfiorato con un dito. Uno di questi, Abboud El Zomor, condannato a 40 anni per complicità nell’omicidio di Sadat e recentemente rilasciato dall’esercito, ha affermato di essere pronto ad applicare le pene coraniche (el hodud) invece della legge positiva: fustigazione per gli adulteri e taglio delle mani per i ladri, soprattutto per evitare che i nuovi politici rubino di nuovo.

Un nuovo Egitto, tollerante, in cui copti e musulmani convivano e lavorino insieme, è possibile. Tutte le forze favorevoli alla tolleranza e all’unità del Paese, di entrambe le religioni, stanno già partecipando a crearlo. Ma non è affatto facile. La deludente Europa di questi mesi, è certamente invitata a far sì che questo Egitto si concretizzi, se non vuole ulteriormente approfondire la faglia mediterranea e ritrovarsi con un nuovo califfato alle porte. Le capitali europee non possono più mettere la testa sotto la sabbia, ancor più gli stati mediterranei che sono i più esposti alle sorti dei paesi arabi. Nel frattempo, i copti continueranno a mescolare lacrime e preghiere e ad affidarsi alla protezione della Vergine Maria, la Madre della Luce.

Riceviamo e pubblichiamo” di Wadie Ghadban

Video della chiesa bruciata a Rafah:

Video della chiesa bruciata e demolita a Sol:

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Qui Radio Londra, quando per colpa di Ferrara la cena va di traverso

postato il 16 Marzo 2011

C’erano tutte le premesse per definire quella di stasera una buona cena: il pollo caldo, un contorno di patate ed un bicchiere di Coca cola. Ma sì, anche la tivù accesa in sottofondo con i deliri del Tg1. Solitamente il mio televisore è sintonizzato su La7, appuntamento fisso con l’ottimo tiggì di Mentana. Ma questa sera avevo proprio voglia di vedere Qui Radio Londra, il programma di Giuliano Ferrara. Apprezzo molto il Foglio, quotidiano che dirige e che acquisto con frequenza. Volevo quindi rivederlo nelle vesti di commentatore televisivo nel dopo tg1. Che mai l’avessi fatto.

La mia cena subisce un primo stop quando vengo a sapere dallo stesso Ferrara che stamattina qualcosa gli è andato storto. Si è alzato di buon umore, almeno così dice, ma un video su You Tube lo ha turbato. Quale? Questo. Si vedono le immagini della protesta che ha accolto Karima El Mahrou, ribattezzata “Ruby”, davanti ad un locale di Maglie. Ferrara è furibondo: “Nel mio paese – dice – c’è gente che ha scambiato il proprio cuore di carne con il cuore di pietra”. Il suo faccione immenso mi ipnotizza.

Mi dice che la povera Karima ha usato il proprio corpo, la sua bellezza, per farsi avanti. Ferrara mi ricorda “l’infanzia complicata” di Ruby, aggiungendo che se ne è “emancipata attraverso il proprio corpo”, come accade a molte ragazze che vogliono fare carriera nel mondo dello spettacolo.

Metto da parte il piatto con le patate. Prendo tra le mani il bicchiere con un po’ di Coca cola all’interno ed chino il capo. Il faccione di Ferrara diventa sempre più inquietante. Ma il cattivo gusto arriva alla fine. Ferrara, non sazio degli acrobatici parallelismi che vanno dall’Islam integralista che lapida le adultere all’America puritana del ‘600, quando si tatuava una lettera rossa sul corpo delle donne di strada, mi tira in ballo Gesù. Avete capito bene. Chiama in causa Gesù di Nazareth, il Cristo, l’unto. Per dirmi cosa? Che nel Vangelo c’è scritto che quel grande ebreo palestinese, Gesù, di fronte a una folla che voleva lapidare un’adultera disse: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

E tutto questo per cosa? Per difendere Ruby e criticare chi quella sera le ha fischiato contro. Ma non solo. Giuliano Ferrara ce l’ha “con chi li eccita”, con chi fa appello alla morale, al puritanesimo.

Alzandomi da tavola ho posato il bicchiere mezzo vuoto. Il mio stomaco si era bevuto già davvero troppo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giovanni Villino

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Il rialzo del petrolio può essere una spinta per l’auto elettrica?

postato il 15 Marzo 2011

Una riflessione tra promesse e realtà.

Con il recente rialzo del prezzo del petrolio e della benzina, il consumatore e le aziende si pongono il problema di come potere risparmiare. La prima soluzione, se si parla di carburanti per autotrazione, sarebbe la ricerca di fonti alternative: ma quali? Il gpl e il metano subiscono anche loro le pressioni del prezzo dei combustibili fossili; restano le fonti alternative quali l’etanolo che però hanno delle rese inferiori alla benzina, inoltre, al momento attuale, la loro produzione non è sufficiente a coprire il panorama mondiale.

Molti ambientalisti, a questo punto, punterebbero sulle auto elettriche. Ma è una opzione praticabile?
I costruttori automobilistici sollevano false speranze sul prossimo futuro dell’auto ecologica e ne approfittano per continuare a vendere vetture di grandi dimensioni e con forti consumi, almeno questo è quanto afferma uno studio dell’Università di Oxford guidato dal dott. Inderwildi.

Eppure alcuni costruttori di auto si erano impegnati a vendere più auto a idrogeno ed elettriche a partire dal 2015, ma si tratta di poche centinaia di vetture e non è una “promessa degna di fede” secondo il dott. Inderwildi.

Infatti vi sono problemi tecnici ed economici.

Per le auto a idrogeno, il problema è da un lato l’idrogeno necessario, perchè è vero che l’idrogeno è l’elemento più comune nell’universo e sul pianeta, ma si tratta di una forma non utilizzabile (gassosa), quindi è necessario prima di tutto ridurlo in forma liquida, procedimento non facile e costoso. Inoltre vi è il problema dell’alto costo del platino necessario per i catalizzatori delle macchine ad idrogeno, infatti servono almeno 50 grammi di platino per ogni catalizzatore, con quello che comporta come costi (circa 2500 sterline, secondo lo studio), considerando fin d’ora che il prezzo è destinato a salire con la crescita della produzione di auto a celle di combustibile. Secondo lo studio poi le celle a combustibile sono soggette a corrosione e hanno una vita molto più breve dei motori convenzionali.

Gli autori sottolineano che i risparmi energetici dipendono anche dalla fonte dell’elettricità o dell’idrogeno utilizzati per alimentare il motore. E al momento la maggior parte è ottenuta bruciando fonti fossili.

Lo studio rileva che il metodo più efficace di ridurre le emissioni complessive dal trasporto su quattro ruote sarebbe «una drastica riduzione sia delle dimensioni sia del peso delle auto a benzina e diesel» e sollecita il governo britannico a imporre tasse più alte sui guidatori di auto di grossa cilindrata, inefficienti, e di reinvestire il gettito per migliorare i trasporti pubblici e incentivare gli spostamenti a piedi e in bicicletta. Gli autori accusano i costruttori di esagerare le potenzialità dell’auto a idrogeno o elettriche nel prossimo decennio e di farlo solo a scopo pubblicitario e per continuare a vendere le attuali auto di grossa cilindrata, mentre per vedere una certa diffusione di veicoli elettrici e ad idrogeno occorrerà aspettare il 2050.
Per quanto riguarda le auto elettriche, secondo la ricerca, il problema è di natura fisica ed è legato alla vita limitata delle batterie e i problemi fisici legati all’accumulo, da parte delle batterie, dell’energia. Un esempio? La migliore batteria a ioni di litio per autotrazione in 25 kg di peso immagazzina l’energia di soli 25 cc di benzina. In pratica con ben 250 kg si ottiene un’autonomia non competitiva con i motori a combustione interna.
E l’auto elettrica impone anche una attenta riflessione industriale che deve essere iniziata ora a livello anche politico, per evitare di arrivare senza soluzioni quando il problema si presenterà: mi riferisco al problema legato all’occupazione. In ballo ci saranno milioni di posti di lavoro che non potranno essere riconvertiti in toto, perchè le auto elettriche non hanno bisogno di cambi e non necessitano neppure di filtri dell’acqua o dell’aria, marmitte, radiatori e pompe. Sono più hi-tech, più semplici: con meno pezzi e meno attori nella filiera.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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