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La rinascita del Cile e l’anti-risorgimento italiano

postato il 3 Marzo 2011

Il presidente cileno Sebastian Piñera in un’intervista al Corriere ha dichiarato di non sentirsi affatto paragonabile al nostro presidente del Consiglio, l’intramontabile Silvio Berlusconi. In molti avvicinano i due uomini in quanto entrambi sono di centrodestra, entrambi rappresentano il potere esecutivo di due Paesi, entrambi provengono dall’imprenditoria (e la somiglianza si fa più marcata se pensiamo che Piñera, come il nostrano Cavaliere, ha un passato da imprenditore nel calcio).

Piñera è presidente da poco meno di un anno, un novizio del mestiere rispetto al suo termine di paragone, ma ha tenuto a rimarcare le dovute differenze, che sono di natura sostanziale e non solo formale. Innanzitutto l’età. Noi italiani siamo assuefatti ad un mondo politico fatto di vecchi, di dinosauri, di fossili cresciuti e invecchiati nella politica, con scarsa propensione a farsi da parte. Ne conosciamo a memoria i nomi visto che da vent’anni campeggiano con le loro dichiarazioni sulle prime pagine dei giornali, a seconda della fortuna o della visibilità della proposta politica di cui si fanno di volta in volta portavoce. Piñera, già esponente politico di rilievo, è presidente dal 2010. Berlusconi dal 1994 ha già formato quattro governi. Il cileno ha poco più di sessant’anni, l’italiano va per i settantacinque. Piñera ha studiato ad Harvard e ha insegnato per quindici anni, quindi conosce bene il mondo accademico. Per Berlusconi le università e le scuole superiori sono solo feudi della sinistra, e non perde occasione per operare tagli al sistema-istruzione attraverso ministri poco inclini al dialogo con le forze che rappresentano la scuola e l’università. E, last but not least, il presidente cileno ha risolto un nodo che per Berlusconi e l’opinione pubblica italiana pesa come un macigno: il conflitto di interessi, formula ormai accettata nel comune parlare che indica quel grumo di interessi a cavallo tra politica e affari di un leader che rimane imprenditore pur essendo presidente del Consiglio. In Italia Berlusconi continua a possedere tre tv, alcuni giornali, case editrici, imprese finanziarie e società sportive. Un rapporto pericoloso mai affrontato con legge, malgrado le parole spese e le accese proteste delle forze d’opposizione, negli anni in cui il “conflitto di interessi” impazzava sui giornali e portava in piazza persone indignate. Berlusconi è  ancora lì coi suoi grassi dividendi mentre il suo “omologo” cileno, sebbene nessuno glielo abbia chiesto, ha smesso i panni dell’imprenditore per quelli di uomo dello Stato che deve guardare a interessi collettivi e non di parte. Una rarità a cui non siamo abituati. Ma tant’è.

Al confronto la figura di Berlusconi, e dell’Italia, se posso permettermelo, impallidiscono ancora di più, quando Piñera parla delle ultime tappe importanti compiute dal suo popolo, che ha saputo mettere da parte l’asprezza di un passato fatto di divisioni e lotte politiche in vista di un’unità politica e sociale, preludio a uno sviluppo economico convinto che, si spera, porterà il Paese ad affrancarsi dalla povertà. “Il Cile è una società riconciliata”, “siamo tornati alla democrazia in modo unitario, saggio e pacifico” e il leader ha progetti seri e robusti per la crescita.

Il confronto è doloroso. Certo a noi non manca la democrazia, il nostro percorso traumatico lo abbiamo già affrontato decenni or sono, ma è quel clima di divisione a preoccupare.

Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia potrebbe essere, perché  no, l’anno della riconciliazione e al contempo l’anno delle riforme, queste sconosciute, sempre evocate e mai realizzate. Il Paese le aspetta dal lontano 1994 quando il deus ex machina le promise solennemente, ribadendole in occasioni successive. La seconda repubblica non ha invertito la rotta, l’Italia è sempre ferma al palo. Se il 2011 ci porterà in una “terza dimensione” della politica, con la creazione convinta di un piano di riforme condivise sarà già un grande risultato. Ma le premesse non prospettano nulla di buono. Il federalismo che tutti desideriamo ha il bollino della Lega, che ne dispone come se fosse appannaggio personale senza considerare le posizioni delle altre forze politiche e dei veri rappresentanti delle autonomie. Il quadro è desolante ma per invertire la rotta basta poco: più responsabilità da parte di chi governa (perché ognuno ha i suoi ruoli, è bene sottolinearlo) e maggiore ascolto a quei protagonisti della scena pubblica che ci danno tanti suggerimenti, a cominciare dal presidente della Repubblica, figura preziosissima, passando per la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che non perde occasione per chiedere alla politica di far ripartire il Paese, fino ad arrivare alle associazioni, alle aggregazioni civili dell’Italia migliore.

Siamo alla vigilia del vertice italo-cileno, l’unica cosa che mi sento di dire è: prendiamo esempio dal Cile, e il consiglio che rivolgo al presidente del Consiglio (e all’Italia) è di prendere esempio da Sebastian Piñera.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

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Talk show a targhe alterne

postato il 2 Marzo 2011

Se non fosse un documento ufficiale l’atto di indirizzo sul pluralismo presentato dal Pdl in commissione di Vigilanza Rai farebbe ridere. Purtroppo il documento è vero e prevede, in maniera surreale, di alternare, di settimana in settimana, conduttori di talk show “con diversa formazione culturale”, mandandoli in onda nelle fasce migliori del palinsesto. La dose è rincarata dal senatore Alessio Butti, relatore di maggioranza, che presentando la bozza ha  spiegato che occupare sempre le serate di martedì e il giovedì (il riferimento è chiaramente a Ballarò e ad Annozero ndr) “è diventata una rendita a vantaggio di alcuni conduttori”.

Le ironie sono state facili e subito si è parlato di “conduzione a targhe alterne”, tuttavia non credo che sia la solita boutade di fantasiosi esponenti del Pdl, ma ci troviamo di fronte ad una proposta che ha nella sua essenza ha qualcosa che non va. L’atto di indirizzo sul pluralismo porta in sé una deteriore concezione del giornalismo, dove il giornalista è ridotto a voce del padrone ed è chiamato a somministrare ai lettori o al pubblico televisivo le verità di comodo del potente di turno.

Diciamocelo chiaramente: “diversa formazione culturale” è un modo educato, anzi politicamente corretto, per indicare giornalisti faziosi che dovrebbero alternarsi sugli schermi televisivi per garantire un presunto pluralismo. Sì, presunto pluralismo, perché, non se ne dispiaccia il senatore Butti, quello proposto non è pluralismo ma solo una forma di lottizzazione degli spazi televisivi a cui non aveva pensato nemmeno la vorace Prima Repubblica.

Davanti a queste assurdità allora sorgono delle domande che forse tanto scontante non sono: è così difficile immaginare un servizio pubblico che sia veramente servizio alla gente e non servizio al Governo in carica? E’ così difficile pensare a dei giornalisti che fanno inchiesta, approfondimento e dibattito e non conducono le loro personali o padronali battaglie politiche su stampa e televisione? Come si può intuire non è questione di difendere Santoro o Floris, ma si stanno confrontando idee diverse di servizio pubblico e di giornalismo. Personalmente ricordo con piacere un noto insegnamento di Indro Montanelli, che era un tipo sicuramente di “formazione culturale diversa”, ad aspiranti giornalisti:  “chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore”.

Adriano Frinchi

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Leggere Socrate e continuare a sperare

postato il 27 Febbraio 2011

In questi giorni mi è capitato di  leggere e apprezzare il libro di Pasquale Tucciariello “Socrate” che, in poche pagine, racchiude il senso dell’esistenza di uno dei più grandi filosofi della storia -anzi, del filosofo per eccellenza-, e ne racconta abilmente gli ultimi momenti di vita.

Un grande spunto di riflessione, per parlare di un personaggio su cui mai nessuno aveva provato a scrivere una tragedia.

Ma possiamo davvero considerarla una tragedia? Certo, si conclude con la “catastrofe”, la morte del grande pensatore tra i gemiti e i lamenti della moglie Santippe e dei suoi fedeli e giovani seguaci ma, ad una più attenta lettura, si scorge infine un barlume di speranza, estraneo ai canoni della tragedia greca. L’eredità lasciata da Socrate non potrà essere certo cancellata dalla decisione di giudici corrotti, di sofisti ignoranti, incalliti paladini delle proprie teorie, di persone false, presuntuose, convinti che uccidendo un uomo, si possa uccidere il suo pensiero.

Oggi sappiamo che ciò non è avvenuto e il messaggio socratico rimane sempre impresso nelle coscienze degli uomini, li spinge a non fermarsi alle apparenze, a scavare nel profondo, a ricercare il vero.

Credo che l’insegnamento di Socrate sia importante per quanti sentono il dovere di partecipare alla vita sociale e politica, anche attraverso il web, per conoscere , comprendere, discutere e, quando necessario, criticare.

Il concetto di “conoscere”, inteso come strumento di “libertà”, è il regalo più grande che Socrate poteva farci.

La partecipazione e il rispetto della legalità, dello Stato, delle leggi, dovrebbero essere i princìpi fondanti di una società civile. Quando manca uno dei due, è la fine.

Spero che la figura di Socrate, dell’uomo giusto, del  grande sapiente che pur sapendo di essere innocente, lascia che la giustizia, non sempre giusta, faccia il suo corso,  possa far riflettere e soprattutto possa farci tornare a sperare in tempi di personaggi che sono lontani anni luce dalla luminosa figura di Socrate.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

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Oltre il triste cortile di casa nostra

postato il 25 Febbraio 2011

Sono lontanissimi i tempi della prima guerra del Golfo quando  Emilio Fede, non ancora consacrato alla causa berlusconiana, lanciava il suo “Studio Aperto” annunciando in diretta l’attacco della coalizione internazionale contro il regime di Saddam Hussein, e in tutte le tv era un susseguirsi di speciali e approfondimenti  per capire cosa stava accadendo nel Golfo Persico.

In quel momento cruciale per un attimo non si sentirono neanche i sinistri scricchiolii della prima Repubblica. Oggi la situazione è assai cambiata. Mentre dall’altra parte del Mediterraneo si sta chiudendo un’epoca e si sta scrivendo una pagina di storia del mondo, qui in Italia non si riesce ad andare oltre il triste cortile casalingo. Sarà anche colpa di un ministro degli esteri evanescente, di un Premier che non vuole disturbare Gheddafi e che ci informa che avrebbe voluto fare il carabiniere, ma tutto ciò non è sufficiente per giustificare il disinteresse e il provincialismo che sembrano regnare nella nostra informazione.

A parte qualche lodevole eccezione, specie nella carta stampata, per il resto nei telegiornali e ancora di più nei cosiddetti talk show la crisi libica è funzionale per parlare dei nostri problemi politici e per dare il via al solito carosello di dichiarazioni e di polemiche. Nei vari salotti televisivi non sono riuscito a sentire l’opinione di un esperto di geopolitica, di un militare o di un diplomatico ma le solite e inconcludenti parole degli habitué di questi palcoscenici che ripetono ossessivamente, quasi come un mantra, la frase “mi lasci finire di parlare”. E così dopo un poco di dibattito sulla Libia si torna a parlare di Berlusconi e dei suoi problemi, della fuga da Fli e dei responsabili e l’unica maghrebina di cui ci si occupa è la signorina Karima el Marhoug in arte Ruby, con buona pace dei poveri libici.

La cosa preoccupante è che quanto accade negli schermi televisivi sembra ripercuotersi nel Paese, anzi, forse addirittura riflette la situazione di un Paese che non riesce ad uscire dalle sue meschinità, non riesce a guardare oltre a quel muro quasi montaliano che lo separa dalla vita del mondo. E mentre il mondo cambia , mentre la storia fa il suo corso noi rimaniamo a guardare la commedia berlusconiana  dove inspiegabilmente il Cavaliere è sempre regista e protagonista e dove tutti sembrano fare a gara per avere una parte in commedia. Forse aveva ragione Giorgio Gaber quando diceva: “io non ho paura di Berlusconi in sé, ma di Berlusconi in me”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Fibra ottica e banda larga, apripista il Trentino

postato il 24 Febbraio 2011

L’Italia è sempre stata nella storia  portatrice di innovazione e cultura. Purtroppo i tempi odierni ci raccontano di un’Italia scesa dal podio, sorpassata e, a volte, doppiata dalle altre potenze economiche mondiali.
Ma non sempre tutto il male vien per nuocere e, come spesso succede, le situazioni complicate si rivelano portatrici di straordinarie occasioni, come  la possibilità di una innovazione tecnologica e socio-culturale.
Ecco perchè in questi giorni si discute sempre più di agenda digitale per l’Italia e più in concreto degli investimenti ,pubblici e privati per portare la banda larga, cioè la connesione ultra rapida che può raggiungere i 100MBs circa in download, e il Wifi nel nostro territorio.
E se le grandi aziende qualche volta prendono sotto gamba il futuro di questo settore, ci sono regioni , come il Trentino, che investono denaro e risorse per portare, in un futuro prossimo, l’innovazione a casa propria.

La Provincia autonoma di Trento ha annunciato in questi giorni la creazione di una partnership pubblico-privato per portare nei prossimi dieci anni la fibra ottica in tutto il territorio, a prescindere dalla densità abitativa o dai possibili profitti economici. Bisogna però precisare che l’avanzamento di cablatura è gia a buon punto.
Portare la fibra ottica in un territorio come quello italiano  è un investimento che richiede capacità tecniche e risorse economiche non indifferenti.  Per questo la Provincia Autonoma di Trento ha deciso di creare un società mista  “ Trentino Ngn” aperta ad altre collaborazioni. Telecom è stata, per ovvie ragioni, la prima ad essere coinvolta e poi anche altre grandi società di telecomunicazione .

Portare la fibra ottica in un territorio ha un impatto paragonabile a quello di costruire una superstrada (senza inquinare o rovinare l’ambiete però), i benefici sono innumerevoli.
La banda larga sottoforma di fibra ottica, permetterebbe ai cittadini di usare servizi fino ad ora inacessibili ai più come E-Government, E-Learning , E-Banking , sanità elettronica ed altri ancora.
L’impatto non coinvolge solo  i singoli, ma anche il tessuto economico del territorio che ne trae beneficio e nuova linfa per creare nuovi commerci.

Siamo ancora lontani da tutto ciò, ma il progetto del Trentino, pioniere di una rivoluzione digitale in Italia, è un esempio da seguire, soprattutto se in questo modo si può risalire nella classifica di penetrazione della fibra ottica, dove l’Italia è davanti solo alla Turchia (che è appena entrata e in veloce ascesa).

L’esempio Trentino servirà da motore per il resto delle regioni? Oppure si preferiranno altre vie di sviluppo? Si convinceranno i privati ad investire di più nel turnover tecnologico italiano delle telecomunicazioni ?

“Riceviamo e pubblchiamo” di Michele Nocetti

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Tutti gli interessi economici fra l’Italia e la Libia di Gheddafi

postato il 24 Febbraio 2011

Le recenti vicende libiche, che seguono le rivolte avvenute in tutto il Nord Africa e Medio Oriente (e che non sembrano essersi sopite come dimostra l’Egitto) ha posto sotto gli occhi di tutti i numerosi rapporti economici che vi sono tra il nostro paese e la Libia. D’altronde l’Italia è al primo posto per l’export e al quinto per l’import da Tripoli, con un interscambio nel primo semestre 2010 che si aggira attorno ai 7 miliardi di euro, con stime superiori ai 12 miliardi per l’intero anno.

D’altronde la nostra dipendenza dall’energia libica è elevatissima, infatti ricordiamo che noi importiamo dalla Libia quasi un terzo del petrolio e del gas che utiliziamo, e anzi uno studio della societa’ Althesys afferma che se il blocco del gas dalla Libia, arrivasse a durare un anno, ci sarebbero delle ripercussioni sulle bollette degli italiani, di circa l’8,5%, perchè la necessità di ricercare combustibili alternativi per non fare fermare le industrie italiane, porterebbe ad un aumento del costo di produzione dell’elettricita’ pari a 20 euro per ogni MegaWatt/h prodotto, pari a circa 32 euro a famiglia.

Se invece osserviamo le società che hanno rapporti a vario titolo con la Libia, osserviamo che la Libia controlla il 7,2% di Unicredit, la finanziaria Lafico possiede il 14,8% della Retelit (società controllata dalla Telecom Italia attiva nel WiMax), il 7,5% della Juventus e il 21,7% della ditta Olcese.

Non è finita qui, perchè Tripoli, attraverso il fondo sovrano Libyan Investment Authority, possiede una partecipazione attorno al 2,01% di Finmeccanica, società italiana leader nella tecnologia e negli armamenti.

Però l’importanza della Libia non è solo nelle partecipazioni azionarie, perchè vi sono oltre 100 imprese italiane in Libia, prevalentemente collegate al settore petrolifero e alle infrastrutture, ai settori della meccanica, dei prodotti e della tecnologia per le costruzioni. L’elenco è smisurato, ma, volendo restare alle più note, non possiamo non citare Iveco (gruppo Fiat) presente con una società mista ed un impianto di assemblaggio di veicoli industriali, Impregilo (i contratti stipulati con la Libia pesano per circa l’11% del fatturato della società), Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro, Ferretti Group (tutte società di costruzioni). Altri settori sono quelli delle centrali termiche (Enel power), impiantistica (Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip). Telecom è presente anche con Prysmian Cables (ex Pirelli Cavi).

Nel 2008 inoltre i libici hanno formalizzato un’intesa con il ministero dell’Economia italiano che dovrebbe permettere a Tripoli di aumentare le partecipazioni in ENI (di cui già possiedono lo 0,7% del capitale) inizialmente al 5%, poi all’8%, fino a un massimo del 10%.

D’altro canto l’ENI è il primo produttore straniero nel paese libico, con una produzione di circa 244mila barili di petrolio al giorno, oltre al gas prodotto dai campi libici attraverso il gasdotto denominato GreenStream (che in questi giorni è stato chiuso a scopo precauzionale dall’ENI) che collega Mellitah, sulla costa libica, con Gela, in Sicilia. Nel 2008, Eni si è approvvigionata dalla Libia per circa 9,87 miliardi di metri cubi di gas naturale e ha avviato il potenziamento del gasdotto per consentire un aumento della capacità di trasporto da 8 a 11 miliardi di metri cubi/anno entro il 2012. Ma tutto questo è niente se lo confrontiamo con il piano di modernizzazione della Libia concepito da Gheddafi, che prevede investimenti per 153 miliardi di dollari per realizzare infrastrutture, progetti urbanistici e tecnologie per sviluppare l’industria estrattiva del petrolio e del gas. L’Eni ha siglato con la società libica che gestisce il petrolio e il gas (Noc, National Oil Corporation) un accordo da 28 miliardi di euro per lo sfruttamento dei giacimenti di greggio e l’aumento della produzione di gas, a cui si aggiunge l’accordo da 150 milioni di dollari con la Noc e la Gheddafi Development Foundation per il restauro di siti archeologici, interventi in campo ambientale, e la formazione di ingegneri libici, che saranno assunti dalla major del cane a sei zampe.

Anche Impregilo, come abbiamo detto, ha fatto e fa molti affari in Libia: ha vinto una commessa per la costruzione di una torre di 180 metri e un albergo di 600 camere a Tripoli, ha realizzato gli aeroporti di Kufra, Benina e Misuratah, e il Parlamento a Sirte. La stessa società ha vinto l’appalto per costruire tre università, più diversi alberghi e è in gara per la costruzione di una autostrada fino all’Egitto.

Questo per quanto riguarda gli affari “civili”, poi c’è il business delle armi: per il momento le nostre aziende del settore difesa hanno siglato ricchi contratti per la fornitura di mezzi militari e armi. In questo modo, la strada è stata aperta e i buoni rapporti instaurati in questi mesi serviranno per siglare nuovi e più sostanziosi contratti per la fornitura di armi e mezzi.

D’altronde la Libia nel 2007 (ultimi dati disponibili) ha acquistato armamenti per 423 milioni di euro, il 52% in più rispetto a dieci anni prima. Ora è il quarto acquirente di armi dell’Africa settentrionale (dietro ad Algeria, Marocco e Senegal).

«Tripoli – osservano i ricercatori del Sipri – sta trattando con alcuni grandi fornitori per acquistare sistemi d’arma complessi e si prevede diventi nei prossimi anni uno dei principali acquirenti di armi del continente africano». Nel Rapporto del presidente del Consiglio dei ministri sui lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento 2008 (la relazione che annualmente il governo italiano presenta al parlamento) la Libia, con 93,2 milioni di euro di fatturato, è il nono cliente dell’industria bellica italiana (nel 2007 il fatturato era di 56,7 milioni di euro).

Questa cifra è destinata ad aumentare visto che i recenti accordi (come quello da 300 milioni di dollari siglato con da Selex con il governo libico) con Finmeccanica promettono di aumentare ulteriormente le esportazioni di armi verso Tripoli.

E non è finita qui, perchè anche l’agroalimentare italiano ha grossi rapporti con la Libia, come afferma la Coldiretti, infatti sono a rischio le esportazioni di conserve di pomodoro, frutta, biscotti e cioccolato per un valore che ha superato i 100 milioni di euro nel corso del 2010, a fronte di importazioni dalla Libia pari a 1 milione di euro.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Il patriottismo da Garibaldi a Benigni: questo matrimonio s’ha da fare!

postato il 22 Febbraio 2011

Se tra cento anni in qualche piazza italiana le future generazioni potranno ammirare una statua equestre di Roberto Benigni al cospetto dell’Eroe dei Due Mondi, Giuseppe Garibaldi, come è già successo a Dante e Petrarca in un bellissimo parco di Arezzo, allora vorrà dire che il Premio Oscar Benigni sarà riuscito a trascinare tutti gli Italiani in quel sogno d’Unità, che è stato anche il leit-motiv di tutto il Festival di Sanremo: il “restiamo uniti” di Gianni Morandi, ripetuto tante volte dal palco dell’Ariston, ecco che già si trasforma in un messaggio carico di significato, un significato molto più ampio e nobile, non solo circoscritto ai suoi compagni d’avventura, Luca e Paolo, Belen ed Elisabetta, bensì estensibile al popolo quasi come un monito.
Ho sempre considerato Roberto Benigni un Genio dei Nostri Tempi, poiché il Genio, proprio come lo è Leopardi o “il su’ Dante”, è colui che sa cogliere il sentire comune degli uomini , ma sa soprattutto carpire lo spirito, ossia il canto dell’anima, degli uomini del suo tempo, sapendone cogliere le ferite, le delusioni, le paure, ma anche i sogni, i sorrisi, le speranze: il genio le conosce meglio di chi ce l’ha dentro certe emozioni e con molta semplicità e naturalezza le carpisce per poi rispedirle al mittente, che non sapeva ci fossero….o che intuiva un’emozione, ma non sapeva come esprimerle. Ed il genio ti sa spiegare pure i tuoi come e perché, che hai nell’anima facendoti da specchio, poiché possiede una virtù che spesso altri non hanno e che, come diceva saggiamente Churchill, è tra le più importanti fra tutte le virtù, poiché senza questa tutte le altre muoiono: il coraggio.
Ecco, grazie al coraggio, Roberto Benigni ci ha fatto da specchio dal palco dell’Ariston e ci ha lasciato di stucco quando, facendo l’esegesi dell’Inno di Mameli, ci ha spiegato il perché ed il come essere uniti. Ciò che un ragazzino pensava gli venisse spiegato da un insegnante o da una voce istituzionale è invece magicamente provenuto dalla TV, dal Festival di Sanremo. E meno male! Ve lo immaginate che tristezza sarebbe stato uno spettacolo diverso o addirittura che avesse banalizzato, minimizzato e ridotto un evento così importante come i 150 anni della nostra Italia? E’stato importante invece, ancor prima che un bello spettacolo, collocare una festa nazione in una piazza nazional-popolare come quella del Festival di Sanremo. Ha ribadito bene questo concetto Roberto Rao, Capogruppo UDC in Commissione di Vigilanza RAI, sottolineando l’importanza della televisione come media fondamentale oggi per trasmettere Cultura ed insegnare.
La Rai ha comunque potuto dimostrare brillantemente a 19 milioni di Italiani (il picco raggiunto durante lo show di Benigni) di essere ”la prima azienda culturale italiana”, rendendo quindi un gran servizio al Paese, ed è auspicabile continuare a percorrere questo binario. Certamente ciò che ci rimarrà ben impresso nella mente non sarà solo l’unicità del nostro Roberto, ma anche il fatto che sia dovuto salire lui sul palco di Sanremo per supplire alle carenze di un Governo a cui non è venuto in mente di celebrare degnamente questa festa. E quindi, come in tanti altri periodi storici un po’ confusi dal punto di vista sociale e politico, ha dovuto farlo un artista, un poeta innamorato dell’Amore come solo Roberto Benigni è.
Meno male che è toccata a lui questa bellissima lezione di storia e di amore sulla nostra Italia. Egli, con una maestria che solo i grandi hanno, ha saputo rispondere all’appello di un altro grande, Antonio Gramsci, letto solennemente da Luca e Paolo, che spiegava ai suoi lettori perché si debba sempre rifuggire dall’indifferenza e come essa sia complice, se non causa addirittura, dei mali più grandi che dilagano tra gli uomini; un concetto ripreso da Alberto Asor Rosa, che parla dell’Indifferenza giudicandola non solo un principio di potere, ma un modo di vita che a lungo andare s’attacca come un morbo schifoso all’esistenza quotidiana di tutti, che ci impedisce di vedere che le questioni dei singoli si legano a quelle di molti, poiché siamo tutti collegati.
Se è innegabile che l’Italia sia un paese caleidoscopico, la cui storia di nazione inizia col mettere insieme (anche forzatamente, come ci insegnano Giordano Bruno Guerri e Pino Aprile) esperienze diverse, questo non può diventare un motivo per alimentare disfattismo e paure che non esistono, se non nelle menti avare e indifferenti di chi dà vita a queste menzogne, spesso servendosi dell’inganno. Alla paura,che paralizza l’uomo e lo distrae dai fini nobili, anzi divini, per cui egli è stato creato, bisogna necessariamente contrapporre la testimonianza vissuta, quella che appartiene a tutti noi italiani quando, viaggiando, ci conosciamo e ci “riconosciamo” negli occhi degli altri e “magicamente” possiamo constatare che non abbiamo nulla da temere gli uni dagli altri. I 150 anni non sono solo un compleanno, una ricorrenza, una data da festeggiare, ma sono soprattutto una GRANDISSIMA OCCASIONE per prendere coscienza della nostra storia, che non è iniziata felicemente sotto il profumo dei fiori d’oro e d’arancio, ma che, grazie a questa presa di coscienza storica amara, può ancora diventare tra le più belle fiabe mai raccontate. Questa fiaba è iniziata con quei ragazzi poco più che ventenni, proprio come Mameli, che morirono per quel sogno, convinti che la loro morte avrebbe dato a noi la vita. Basterebbe poco per un lieto fine però, confermando che la giusta causa non s’è dissolta nel nulla, così come le loro morti. Basterebbe innanzitutto riappropriarsi della facoltà di pensare con la propria testa e leggere, vedere, sentire. Basterebbe pensare che essere DIVERSI MA COMPATIBILI, QUINDI UNITI è una ricchezza, una forza, una marcia in più; quella marcia di cui per esempio abbiamo bisogno se vogliamo vedere l’Italia come nazione-chiave, fondamentale per l’ equilibrio, nel nuovo assetto geopolitico dell’area mediterranea.
I Padri costituenti realizzarono la Costituzione, perché ci amarono…e ci amarono talmente tanto che lo fecero, per nostra fortuna, con lungimiranza, affinché nessun uomo mai più potesse disporre della vita e dei pensieri di un altro uomo, come poteva accadere per questa ricorrenza, sentita innanzitutto dal basso.Se chi scrisse la Costituzione lo fece innanzitutto perché amava il popolo italiano, si capisce perché ogni tanto spunta qualcuno che non riesce ad interpretarla correttamente! E ritornando ai Mazzini,Pisacane,Mameli e Garibaldi, essi morirono per l’Italia, perché il loro sogno era costruire un BENE COMUNE DA TUTELARE, INTESO COME SISTEMA DI VALORI CONDIVISI DA DIFENDERE: questo significa ITALIA UNITA e sfido chiunque a dire che i valori morali siano diversi da Aosta a Cagliari, da Genova a Bari o da Ravenna a Roma.Incostituzionale è semmai affermare che l’Unità debba venire dopo il federalismo.Federalismo, welfare, protezionismo che c’entrano con la Festa di valori condivisi?
Concluderei, citando ancora una volta il pensiero sublime del poeta Benigni, che in un altro suo film capolavoro, “La tigre e la neve”, consiglia a tutto il genere umano di innamorarsi per mettere meglio a fuoco la Verità dell’universo che ci circonda. Ecco, forse l’Innamoramento è il vero antidoto per quell’indifferenza che temeva Gramsci: l’Amore in senso assoluto come unico vaccino efficace contro quel maledetto virus dell’indifferenza. E allora , come grida con gioia e mirabile felicità il nostro Roberto: INNAMORATEVI!!! Innamoratevi Italiani, guardatevi allo specchio della Storia e poi leggete la poesia che è dentro di voi, perché” la poesia non è fuori, ma è dentro”, come afferma Benigni. Dimostrate Italiani a tutto il Mondo che vi mancavano solo le parole per esprimere ciò che sentivate e che sentite, ora più che mai che ne avete preso coscienza: dimostriamo al Mondo che a volte ci vogliono 80 anni per scrivere una poesia d’amore, poiché ci vogliono 8 mesi per trovare ciascuna “parola giusta” che possa esprimere il sentimento dell’amore….Noi ci abbiamo messo un po’ di più, 150 anni, proprio perché siamo italiani e dovevamo trovare le parole giuste, per non far imbarazzare il Sommo Poeta.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Elisabetta Pontrelli

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“Prima il Veneto”… ma Zaia si è dimenticato della montagna veneta

postato il 22 Febbraio 2011

“Prima i veneti” recitavano gli i manifesti elettorali di Luca Zaia. Intanto è stato negato un assessorato ad un bellunese, la promessa di occuparsi in prima persona della provincia di Belluno e dell’intera montagna veneta non è stata mantenuta, Hanno saputo solo sbandierare il federalismo come cura di ogni male del nostro territorio, senza però dire che non toccherà i privilegi dei vicini autonomi e che l’unica certezza è l’aumento delle tasse.

Prima il Veneto… ma quando ci sono da discutere i tagli alle regioni il nostro Presidente diserta i tavoli, e capita che in due anni la nostra regione perderà circa 800 milioni di euro a beneficio di Roma Capitale o, come piace chiamarla ai leghisti “Roma Ladrona”. Eppure il nostro Presidente Zaia non manca mai quando c’è da mangiare, con i colleghi Ministri della Repubblica con immancabile fazzolettino verde, polenta e pajata.

Prima il Veneto… è questi giorni l’ennesimo schiaffo alla montagna veneta, che già soffre la concorrenza dei vicini a statuto autonomo, con la ripartizione dei fondi per i comuni montani che assegna al nostro territorio solo il 2,66% dei circa 16 milioni e mezzo di euro disponibili, insomma, solo le briciole mentre la fetta più cospicua della torta è andata a Campania e Calabria rispettivamente con 28,97% e 17,51%, territori che hanno avuto già molti contributi in passato e la cui montagna non è paragonabile a quella alpina.

Qualcuno, come il Presidente della Provincia di Belluno Bottacin si chiede come mai ci siano tutte queste proteste e ricorda che l’assegnazione avviene sulla base della cosiddetta “spesa storica”(un meccanismo arrugginito che premia gli sperperatori), oppure qualcun’altro cerca di giustificarsi dicendo che il Veneto è una delle regioni con la più alta percentuale di territorio pianeggiante, dimenticandosi, incredibilmente, di una provincia interamente montuosa.

Si tratta solamente di scuse. La Lega che governa a Belluno, Venezia e Roma dovrebbe, invece di giustificarsi, spendere le proprie energie per modificare questi meccanismi che tanto critica.

Qualcuno sicuramente leggendo queste righe penserà: “è colpa dell’UDC che non ha fatto passare il federalismo fiscale”. A questa obiezione sinceramente rispondo che l’UDC fa  il suo “mestiere” di opposizione, mentre stupisce che Pdl e Lega, che sono al governo, diano sempre la colpa agli altri per i loro errori e le loro negligenze.

Mi piacerebbe nei prossimi giorni sentire qualche leghista alzare la voce, magari a Roma o ad Arcore, in difesa del proprio territorio, invece di piangersi addosso ed addossare le colpe al sistema ereditato da chissà quale governo passato. Non ci si può scandalizzare se alcuni comuni od un’intera provincia vogliono lasciare il Veneto per andare col Trentino Alto Adige o col Friuli, se ci si ricorda di loro solo nei due mesi di campagna elettorale mentre in concomitanza con il voto di fiducia si riesce a far sbloccare 750 milioni euro e la gestione del Parco dello Stelvio.

É ora che gli amministratori locali di questi territori montani, di qualsiasi schieramento,  facciano sentire la loro voce, unendo le forze con quelli lombardi e piemontesi che certamente non se la passano meglio e chiedere un vero federalismo, per non far morire il nostro territorio.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maurizio Isma

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L’anelito di libertà che ci deve disturbare

postato il 20 Febbraio 2011

La fine dei governi autoritari di Tunisia ed Egitto sembra aver innescato un movimento di protesta senza precedenti che in questi giorni riempie le piazze di molti paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Le notizie che giungono da questi paesi sono molto frammentarie e confuse perché le autorità controllano le comunicazioni e hanno messo in atto una strategia di oscuramento che colpisce specialmente la rete internet e i suoi social networks, tuttavia le notizie riescono comunque ad aggirare in qualche modo questo feroce embargo e in queste ore ci raccontano anche delle repressioni nel sangue in particolare in Bahrein e in Libia. Queste serie di sollevazioni dal golfo persico all’oceano Atlantico sono sicuramente il sintomo di un malessere generalizzato nei confronti di regimi autoritari e corrotti che governano grazie alla paura e a complicità svariate, spesso anche internazionali, e che hanno impedito la crescita di questi paesi e in molti casi hanno causato uno spaventoso divario tra poveri e ricchi. Altro particolare di queste rivolte è che le piazze sono piene di giovani e donne dai diritti conculcati e dal futuro incerto che traggono forza e speranza dai contatti che sviluppano attraverso internet con l’Occidente libero e democratico.

Nonostante queste caratteristiche comuni le proteste e le rivolte che sconvolgono il Maghreb e la penisola araba sono molto differenti tra di loro ed ogni paese presenta variabili ed imprevisti che difficilmente consento di identificare il fenomeno e di prevedere sviluppi e possibili scenari. Di certo in questo momento c’è l’insufficienza della politica estera dell’Europa e dell’Italia, al contrario degli Stati Uniti, che pure con evidenti defaiances diplomatiche sono riusciti in qualche modo a far sentire la loro voce, l’Europa è sembrata spiazzata ed afona di fronte al precipitare della situazione in Tunisia, in Egitto e poi negli altri paesi.

L’Unione Europea dei trattati e delle conferenze mediterranee, di Tony Blair e Lady Ashton non è riuscita a prendere una posizione, a intervenire e probabilmente ha deluso le aspettative di quegli uomini e di quelle donne che nelle piazze e nelle strade di questo oriente inquieto speravano almeno in un cenno di approvazione della patria del diritto e della civiltà. Purtroppo non ci si può neanche consolare con le diplomazie nazionali: come ha argutamente notato Ugo Tramballi su il Sole 24 ore se in un motore di ricerca proviamo a cercare qualcosa del tipo “Franco Frattini Medio Oriente” oppure “Alliot-Marie Proche Orient” troveremo poco o niente. E’ probabile che questo silenzio non sia solo il frutto amaro di ministri degli esteri incapaci ma anche di un imbarazzo politico dovuto all’appoggio, non troppo velato, ai tiranni di ieri che hanno governato spesso col consenso e la benevolenza di parecchi stati europei che spesso hanno anche notevoli interessi economici in ballo.

In Italia l’assordante silenzio del ministro Frattini è purtroppo compensato dalle incredibili dichiarazioni del Premier che ha affermato davanti ai giornalisti di non avere sentito Gheddafi e di non permettersi di disturbalo. Peccato che il “non disturbare Gheddafi” del Presidente del Consiglio sia costato al popolo libico più di cento morti negli scontri di Bengasi. Fiumi di sangue e la fine dello status quo in Nord Africa e Medio Oriente dovrebbero spingere Berlusconi a riferire alla Camere, e più in generale dovrebbero costringere l’intera Europa a riflettere sulle conseguenze di questa situazione e ad intervenire per una soluzione non violenta delle crisi che però preservi e sostenga l’anelito di libertà e democrazia che proviene dalle piazze Tahrir di tutto l’Oriente. Un anelito che deve “disturbare”  i satrapi orientali ma anche i sonni tranquilli dei cosiddetti paesi liberi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Agenda digitale, accettiamo la sfida!

postato il 19 Febbraio 2011

Quarantotto è la posizione dell’Italia nella classifica dei paesi capaci di innovazione stilata dal Global Competitiveness Index del World Economic Forum;

Tre sono i megabit della velocità reale media delle nostre connessioni;

Ventotto milioni sono, secondo le statistiche InternetWorldStats, gli italiani che ancora non hanno accesso ad internet (il 49% della popolazione);

L’1,21% sarebbe la crescita del Pil pro capite stimata dalla Banca Mondiale se ci fosse un aumento del 10% della banda larga.

Sono dati quelli appena snocciolati che fanno saltare agli occhi la necessità di imprimere all’Italia una grande svolta digitale per rendere la nostra economia realmente competitiva. Nonostante l’abbondanza di dati che indicano la necessità e l’urgenza di una strategia digitale un recente rapporto dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU) ci informa che tra i 161 paesi che attualmente stanno lavorando ad una strategia digitale non c’è ancora l’Italia. In questo quadro appare assolutamente condivisibile l’appello dei sottoscrittori del manifesto di Agenda digitale che chiedono alla politica italiana di portare questo tema al centro del dibattito politico nella consapevolezza che si tratta di una straordinaria opportunità di sviluppo per il Paese. L’Udc è convinta che questo appello ad una rivoluzione digitale italiana non vada lasciato cadere nel vuoto e che sull’esempio dell’Europa bisogna delineare una agenda digitale italiana per indicare le strategie per i prossimi cruciali anni: per questo insieme a professionisti, blogger, volontari web e tutti che coloro che vorranno contribuire, l’UDC sta redigendo una propria proposta di agenda digitale.

L’agenda digitale non è solo una necessità di sviluppo ma è anche l’occasione per far uscire l’Italia dall’immobilismo politico, sociale ed economico; ecco perché questo progetto necessità dell’impegno di tutte le forze politiche, ma anche di tutti coloro che hanno a cuore il futuro di questo Paese. Facciamo allora appello all’ingegno, alla fantasia e alla creatività di tutti i nostri amici per contribuire attraverso le pagine del nostro sito a questo grande battaglia per l’innovazione. Aspettiamo i vostri contributi per far divenire l’agenda digitale italiana una realtà.

La Redazione

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