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Smettetela di litigare

postato il 10 Agosto 2011

C’è un fenomeno che mi preoccupa particolarmente in Italia: l’abitudine. Col passare dei mesi e degli anni, infatti, abbiamo assistito a moltissime brutture nel nostro Paese. Questi episodi, però, hanno fatto sempre meno scalpore, come se il popolo italico si fosse abituato a troppe cose che tempo fa non avrebbe minimamente sopportato.  E ciò accade soprattutto nei riguardi della politica.

Ad oggi è impossibile contare sulle dita gli scandali che hanno colpito questa parte della società che naviga in un mare davvero poco pulito, fatto di appalti illeciti, festini e mazzette. Tuttavia, gli italiani sembrano essercisi abituati, mentre chi proprio non ne può più, piuttosto che utilizzare le proprie energie per impegnarsi concretamente, preferisce trasformare la propria indignazione in un odio fatto di qualunquismo ed egoismo che, quanto è più forte, meno è utile.

D’altro canto, la politica non fa nulla per spegnere questo fuoco d’ira che gli italiani stanno covando e, anzi, lo alimentano a suon di liti, insulti e divisioni. E’ questo il motivo principale per cui l’appello alla coesione nazionale del leader UdC, Pier Ferdinando Casini, ha suscitato tanto scalpore: non è ciò che un italiano si aspetterebbe da un politico, di opposizione per giunta.

E allora ecco lo sciacallaggio mediatico, di chi ha subito accusato Casini di voler aiutare Silvio Berlusconi, di voler entrare nella maggioranza del premier. Ma, come già ampiamente ricordato, l’UdC è all’opposizione e, rispettando il sacrosanto volere degli elettori, vi rimarrà fino alla fine di questo governo.

Questo episodio, però fa riflettere. Fa capire che non esiste più, nelle menti del nostro popolo, l’idea che si possa lavorare assieme, uniti, anche se da distanti banchi del Parlamento. Non c’è più l’idea di solidarietà ed impegno, necessario in questo periodo di grave crisi economica mondiale e così, mentre in Italia si litiga, o si chiedono nuove elezioni, in Europa e nel mondo si prendono le decisioni importanti, col rischio che il nostro Paese rimanga fuori da questo giro che alcuni italiani stessi avevano contribuito a creare. Ma quelli erano altri tempi, altre persone e, soprattutto, altri politici.

Per questo motivo serve coesione nazionale: non possiamo far sì che l’Italia precipiti nel baratro più di quanto non lo sia già. Servono misure concrete, condivise e, se serve, anche impopolari. Serve voltare pagina, cambiare davvero l’Italia, recuperare quell’identità nazionale bistrattata. La nostra identità: quella di persone forti, decise e combattive. Non possiamo aver dimenticato tutto ciò: le seppur grandi delusioni non possono aver spazzato via anni di grande politica e di grandi virtù.

C’è un solo modo per fare questo, però: smettere di litigare, ricordarsi che l’avversario politico non è un nemico, ma una persona con cui confrontarsi e con cui crescere insieme. Bisogna lasciare da parte gli egoismi, l’ambizione e l’odio: ora pensiamo all’Italia e agli italiani.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

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Reagire al lunedì nero

postato il 9 Agosto 2011

Esattamente la settimana scorsa avevamo scritto un articolo intitolato “Lunedi nero in Borsa: proviamo a ragionarci”, in cui esponevamo alcune considerazioni come, per esempio, che probabilmente S&P avrebbe provveduto ad un downgrade degli USA, e si è verificato. Avevamo anche rilevato come l’economia di tutta l’Europa (almeno delle grandi economie europee: Francia, Italia e Germania) stesse rallentando e oggi le borse francesi e tedesche hanno fatto peggio di quella italiana. Cosa si può dire oggi? Sicuramente che lunedì  è stata una giornata molto nervosa: prima si apre con un forte rialzo, poi si va negativi, di nuovo positivi e infine, sul crollo di Wall Street, si crolla definitivamente. C’è chi paventa una nuova crisi come quella del 2008 e chi riparla di nuovo della crisi del 1929. Su quest’ultimo punto vorremmo dire alcune cose: intanto specifichiamo che ogni parallelismo tra la crisi del 2008 o quella attuale e la crisi del 1929 è fuori luogo; con la crisi del 1929 il PIL arrivò a diminuire del 40% e con la disoccupazione che ebbe una impennata mai vista prima e arrivando a punte del 17% negli USA e del 24% in Germania a cui dobbiamo aggiungere alcuni milioni di semioccupati (il part time dell’epoca) . Da quanto detto si desume che siamo ancora lontani dalle vette (o forse sarebbe meglio dire dai baratri) del 1929, e questa è una cosa positiva. Però non dobbiamo sottovalutare la portata della crisi attuale che è una crisi essenzialmente di fiducia. Fiducia verso il futuro, verso le capacità di ripresa economica, verso una ripresa del processo di produzione di ricchezza. E oggi, possiamo dire che questa crisi di fiducia è ormai generalizzata e lo testimoniano le performance dei mercati europei e americani di oggi. Perché affermiamo che è una crisi di fiducia? Perché si è appena conclusa la “stagione” delle trimestrali, e le aziende americane ed europee hanno mostrato in media utili superiori alle attese, quindi non vi è il problema del 2008 quando alcune società molto grosse o chiusero (Lehman Brothers) o rischiarono di chiudere (Fanny Mae, General Motors, Opel ad esempio) o presentavano utili inferiori alle attese (le banche europee). In compenso, rispetto al 2008, le nazioni hanno oggi minori margini di manovra: gli stessi USA devono fronteggiare un debito molto elevato  e cercare di ridurlo, attuando di fatto, una manovra non espansiva per i mercati. A tutto questo si aggiungono i balletti della politica, non solo quella italiana, ma anche quella estera: il piano di salvataggio della Grecia, ha impiegato circa 16 mesi per diventare pienamente operativo a causa dei rallentamenti posti in atto dalla Germania (la Merkel non poteva inimicarsi l’elettorato) e degli stessi politici greci che hanno rimandato le privatizzazioni, salvo attuarle ora quando le società però si sono dimezzate di valore; l’accordo tra repubblicani e democratici negli USA è stato fortemente condizionato dalle scadenze elettorali. Questa è la situazione peggiore per i mercati, in quali soffrono tantissimo le incertezze e i continui rimandi. Quindi la risposta che bisogna dare alla crisi attuale è legata ad una azione chiara, semplice, incisiva e soprattutto rapida. La risposta in primo luogo deve arrivare dal governo che deve uscire dalla litania dei buoni propositi e impegnarsi concretamente per strutturare tutti i provvedimenti che oggi, non domani, devono essere presi. Per fare ciò è necessario l’apporto dell’intera classe politica che in questo momento storico è chiamata non solo a esprimere al meglio le proprie capacità ma anche a mostrare una supplementare dose di responsabilità per il bene del Paese. Politici della maggioranza e dell’opposizione potrebbero utilmente quello che da più parti viene definito lo “stile Casini” e che raccoglie quotidianamente elogi. Il leader dell’Udc ha dimostrato nel momento dell’acuirsi della crisi una straordinaria capacità di mobilitazione che non è consistita solamente nel manifestare in sede parlamentare al governo la disponibilità a mettere da parte le beghe politiche per cooperare sul tema scottante della crisi, ma nel sapere opportunamente indicare strade da percorrere e provvedimenti da prendere. Tra queste proposte ha meritato particolare attenzione la proposta di una commissione o tavolo comune per decidere iniziative utili alla crescita. Lo “stile Casini” è dunque un modo responsabile di fare politica, dove allo scontro fine a se stesso viene privilegiato un confronto che, anche se acceso, produce risultati e che è basato sostanzialmente sulla convinzione che tutti possono avere una buona idea per il salvare il Paese. Concretamente questo nuovo modo di affrontare l’agone politico non si è manifestato solamente nell’ultimo discorso alla Camera in occasione delle comunicazione del governo in merito alla crisi, ma quotidianamente con dichiarazioni e interventi sensati fatti di proposte e indicazioni e soprattutto con una presenza fisica a Roma e in particolare alla prossima riunione congiunta delle commissioni affari costituzionali e tesoro di Camera e Senato. Parole responsabili, proposte concrete e presenza assidua sono ciò che gli italiani, e anche i mercati, si aspettano in questo momento, è auspicabile pertanto che lo “stile Casini” prenda immediatamente piede nel Palazzo.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati e Adriano Frinchi

 

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Crisi, è l’ora dei fatti

postato il 8 Agosto 2011

Cosa è stato detto alla conferenza straordinaria di Berlusconi e Tremonti? Sostanzialmente Berlusconi e Tremonti con 48 ore di ritardo hanno riconosciuto che bisogna accelerare il pareggio di bilancio (dal 2014 l’obiettivo si sposta al 2013), e attiveranno le commissioni competenti di Camera e Senato, in pratica chiedendo di azzerare le ferie per il Parlamento.

Hanno poi affermato che nei prossimi giorni si riuniranno con i paesi del G7 per realizzare una riunione propedeutica a successivi piani comuni.

I punti salienti sono stati però enunciati  da Tremonti: le aziende potranno agire come meglio crederanno purchè nel rispetto della legge,  seguendo la regola per cui  “tutto è libero tranne ciò che è espressamente vietato”, in secondo luogo si vuole lanciare una riforma del lavoro in particolare per il mondo dei giovani.

Questi due pilastri come si realizzeranno? Quali sono gli obiettivi? Ancora non è dato saperlo.

In pratica hanno detto che faranno qualcosa, ma senza specificare cosa vorrebbero fare. Hanno parlato che porteranno delle leggi in Parlamento, cercando il consenso dell’opposizione e delle parti sociali.

Alla fine dei fatti, l’unica cosa concreta è l’anticipo del pareggio di bilancio di un anno (in pratica si raggiungerà nel 2013) e inserire nella costituzione il vincolo del pareggio di bilancio.

E’ stato detto molto o poco?

A mio avviso i temi sono tanti, ma è stato detto poco.

Come al solito hanno lanciato grandi temi, ma senza mettere paletti concreti e di questo se ne è accorta anche la BCE che infatti ha affermato che l’Italia deve fare di piu’ “sul fronte dell’austerity per favorire un intervento della Bce”, e anzi hanno riportato forti perplessità sull’adeguatezza delle misure, affermando testualmente: “Non credo che siano sufficienti anche se vanno nella direzione giusta. Bisognerebbe fare un po’ di piu’ in quanto la maggior parte delle misure non si attueranno prima delle elezioni del 2013.”

A questo punto, la mia personalissima opinione è che nessun membro dell’opposizione si tirerà indietro dal partecipare costruttivamente al trovare soluzioni alla crisi, ma perché vi sia dialogo, bisogna essere in due ad ascoltare.

Non sono necessarie le dimissioni del premier, ma che quest’ultimo decida di ascoltare davvero, smetta di preoccuparsi solo della giustizia e smetta di difendere certe posizioni della Lega che sono indifendibili.

Inoltre bisogna entrare nell’ottica che non si possono chiedere sacrifici agli altri, se non si è disposti a subirli in prima persona: un taglio ai costi della politica è necessario, quindi una riduzione dello stipendio dei parlamentari e una parametrizzazione dei compensi e dei benefit di tutte le cariche elettive e delle aziende di stato agli omologhi europei, sarebbe l’ideale, oltre a dare attuazione al famoso taglio delle province, cavallo di battaglia dell’attuale governo nel 2008 e invocato più volte dai cittadini italiani.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati


 

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Perché il pareggio sia una vittoria

postato il 6 Agosto 2011

La sostanziale adozione da parte del governo della proposta del senatore Nicola Rossi, che prevede l’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione e l’anticipo al 2013 del pareggio stesso, è sicuramente una nota positiva dopo giorni di notizie e segnali negativi provenienti dal mondo dell’economia e di risposte insufficienti da parte della politica. Della bontà dei contenuti di questa scelta sono tutti convinti, ma ciò che va sottolineato è anche il  metodo con cui si arriva a questa scelta ragionevole: il metodo delle soluzioni condivise. L’Italia uscirà dalla crisi solamente se le forze politiche e sociali saranno capaci di trovare soluzioni che abbiano consenso trasversale, che mettano d’accordo le aree più responsabili del Paese e che non siano banali accordi al ribasso. Resta a questo punto da vedere quale sarà nel dettaglio la proposta del governo per riformare l’articolo 81 della Costituzione perché le politiche di risanamento devono essere fatte all’insegna della chiarezza per evitare quello che Ugo Arrigo definisce “equivoco del risanamento del bilancio”. Arrigo, docente di Finanza pubblica all’Università di Milano-Bicocca, sostiene che occorre prima risanare il settore pubblico per potere avere il risanamento del bilancio  soprattutto se non si vuole, ancora una volta, mettere le mani nelle tasche dei contribuenti. Il risanamento e il pareggio di bilancio, in altri termini, sono obiettivi da raggiungere ma non sulla pelle dei contribuenti bensì attraverso una “messa in efficienza dello Stato produttore” che non solo permetterebbe un pareggio di bilancio ma consentirebbe anche di ridurre di almeno tre punti di Pil la pressione fiscale, ridando così ossigeno alla crescita economica. Sempre a detta di Arrigo non vanno dimenticati provvedimenti chiave utili in questo percorso come privatizzazioni, liberalizzazioni, riforma delle pensioni, e costruzioni di opere pubbliche utili per cui “se si usassero contemporaneamente tutti questi strumenti non sarebbe assolutamente necessario aumentare la pressione fiscale, anzi essa potrebbe diminuire significativamente (permettendo in tal modo di far pagare meno tasse a tutti anzichè tutte le tasse solo a qualcuno)”. Come si può vedere idee e suggerimenti per uscire dalla crisi e far ripartire il sistema Italia non mancano, tuttavia è necessario che i suddetti obiettivi vengano al più presto raggiunti e siano perseguiti col massimo rigore evitando le classiche italiche furbizie e per far questo occorre che il governo non si mantenga sulle vaghe promesse ma agisca concretamente e senza tentennamenti di sorta puntando su una manovra di riforme sostanziali e non di banali tagli e crescenti tasse. L’Italia si gioca tutto in questo frangente e  l’obiettivo del pareggio è il simbolo di questo riscatto. Sembra proprio il caso di dire, alla maniera calcistica, che il pareggio questa volta è una vera e propria vittoria.

Riceviamo e pubblichiamo Adriano Frinchi

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La lotta alla mafia non si fa con le armi spuntate

postato il 5 Agosto 2011

Ci sono tanti modi per fare antimafia. Uno dei più ammirevoli è l’antimafia sociale, fatta dai cittadini, spesso senza protezione, poi c’è quella della magistratura e delle forze dell’ordine, e infine quella più “di palazzo”, l’antimafia legislativa, che spesso è la più efficace, perché è in grado di dare gli strumenti giuridici per questa lotta impari. È un’antimafia che si esprime con le leggi e che in ultima battuta è stabilita dalla politica, dalle maggioranze o dalle intese bipartisan, cosa ancora più suggestiva e auspicabile, in un Paese che dovrebbe unirsi superando le divisioni politiche per sconfiggere una piaga fino ad oggi  incurabile. Capita dunque che il Parlamento si esprima favorevolmente e con un certo grado di coesione per conferire al governo la delega per la stesura del nuovo codice antimafia, testo che riunisce la normativa vigente armonizzando i vari strumenti giuridici un po’ sparsi e scoordinati fra loro.

La proposta del governo, contenuta in un decreto legislativo, ha fatto molto discutere tanto che Libera, la rete che raggruppa le associazioni antimafia e principale attore sociale di lotta alla mafia, ha diffuso un appello per prorogare l’approvazione del codice. Un appello inascoltato: il governo ha fatto orecchie da mercante, recente l’epilogo della vicenda:codice antimafia approvato dal consiglio dei ministri con le congratulazioni reciproche tra passati e presenti guardasigilli, entrata in vigore fissata per il 7 settembre.

Punto di forza dell’antimafia è sempre stato il sequestro, la confisca e la restituzione alla legalità dei beni appartenenti a soggetti condannati per reati di mafia, procedimento reso possibile dalla lungimirante opera di Pio La Torre, che non a caso venne ucciso dalla mafia proprio per aver lanciato l’idea della confisca dei beni mafiosi, scaturita poi in una legge del 1996, obiettivo raggiunto grazie a una raccolta firme di Libera. Oggi questo strumento così utile, così efficace appare indebolito, spuntato, compresso nella sua portata dal codice di emanazione governativa. Nel testo si stabilisce infatti che tutto l’iter che porta all’assegnazione al pubblico dei beni confiscati deve terminare entro un anno e sei mesi dall’inizio della procedura. Scaduto questo termine, la ghigliottina: vanificato tutto il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine, fatto di riscontri, perizie, indagini approfondite tra Italia e estero, una mole di operazioni che difficilmente si possono concludere in quei tempi ristretti. La paura delle tante associazioni antimafia e di tanti magistrati è che questa previsione si traduca in una sorta di prescrizione generalizzata di tutte le misure di prevenzione patrimoniale nei confronti delle mafie. Ma come? Se c’è un modo per colpire il sistema mafioso in maniera in qualche caso irreversibile è proprio la confisca dei beni e il loro riutilizzo a fini sociali, e lo si va a minare così? Le preoccupazioni sono fondate: l’universo mafioso è tutt’altro che sofferente, oggi i volumi di affari sono sempre più ingenti e il Nord si sta mostrando sempre più impermeabile a questo business parallelo. Un business che dà lavoro a tante persone, ecco perché così vitale e reattivo. Gli strumenti su cui possono contare le forze che reprimono il fenomeno devono espandersi, non comprimersi, specialmente in un momento così delicato quale è quello della crisi economica e di grossi investimenti nel Centro-Nord (infrastrutture e Expo2015 in primis).

L’appello che chi sensibilizza l’opinione pubblica alla lotta alla criminalità organizzata rivolge al governo è che ripensi il codice che ha prodotto. Impegno della politica deve essere quello di affermare l’idea che un Paese dove prosperano le mafie non è un Paese libero. Non si possono ammettere poteri opposti o paralleli che applicano le loro leggi, di Stato ce n’è soltanto uno e siamo noi, la moltitudine di cittadini onesti che chiede un Paese libero e non schiavo. I segnali positivi sono tanti ma non possono essere scoraggiati da una legislazione indifferente: molti commercianti del Sud si stanno ribellando al racket del pizzo, i molti beni confiscati ai mafiosi vengono recuperati e offerti alla collettività, l’ammirevole azione delle forze dell’ordine sta dando i suoi frutti. Liberarci dal tiranno è possibile ma solo con gli strumenti adatti, con le armi spuntate non si arriva a nulla.

Riceviamo e pubblichiamo Stefano Barbero

 

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Appunti per un progetto comune di ripresa

postato il 5 Agosto 2011

E’ giunto il momento di abbandonare la politica delle parole e dei discorsi per passare ai fatti concreti. Lo richiede la situazione economica mondiale e quella del nostro Paese. Proviamo a stilare una piccola agenda di cosa da fare urgentemente, possibilmente con la collaborazioni di quanti, al di là delle idee politiche e degli interessi di parte, hanno a cuore il futuro dell’Italia e degli italiani. Ecco, a mio modesto avviso, le cose principali da fare:

  1. raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2014: è fondamentale per garantire sicurezza di fronte ai mercati internazionali, per rilanciare l’Italia come polo di attrattiva di investimenti a livello internazionale, diminuiti drasticamente negli ultimi anni per la difficoltà della burocrazia e i problemi della pubblica amministrazione;
  2. una riforma fiscale basata non sulla rimodulazione delle aliquote, che finisce con l’abbassare le tasse ai ceti più elevati, ma che colpisca le rendite finanziarie elevate;
  3. una campagna di liberalizzazioni, a partire da quella tanto odiata sull’acqua, perché la logica del profitto e della concorrenza privilegia il cittadino, invece una statalizzazione selvaggia come quella in atto finisce con l’aiutare quel “pubblico” che ha permesso che la nostra rete idrica sia la più malandata d’Europa;
  4. una riforma della scuola, meritocratica, che privilegi le Università e gli studenti che meritano e non tutti indiscriminatamente, perché quantità non è sinonimo di qualità;
  5. un aiuto a quanti sono precari o disoccupati, in particolar modo giovani, perché un Paese che non può lavorare non può neanche produrre;
  6. taglio ai costi della politica: sebbene dal punto di vista economico non incidono in maniera significativa, sono fondamentali per ridare credibilità e sicurezza alla politica, perché se si chiedono sacrifici ai cittadini, i primi a sopportarli devono essere quanti governano;
  7. una riforma della giustizia, che non garantisca l’impunità alle stesse persone, ma che riduca i tempi dei processi senza degenerare nell’impunità;
  8. un maggior investimento nelle infrastrutture, che garantisca occupazione e migliori opportunità di investimento per i capitali esteri, a partire dai progetti europei come la TAV.

Riceviamo e pubblichiamo di Andrea Magnano

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Tecnologia e società, il dialogo necessario per superare la crisi

postato il 4 Agosto 2011

L’andamento dell’economia a livello mondiale impone una attenta riflessione che non può più essere solo locale, ma globale. A mio avviso il progresso tecnologico ha portato al punto di rottura il sistema sociale su cui ci siamo sempre basati: il nostro sistema è centrato sull’assunto di “lavorare di più, per produrre di più e guadagnare di più”. Aumentando la produttività, aumenta la ricchezza, i consumatori aumentano e si assumono altri lavoratori. Questo trade off era particolarmente vero in una società preindustriale. Con l’avvento della industrializzazione negli ultimi secoli, si è assistito ad un prosieguo, a mio avviso fittizio, dell’assunto di cui sopra. Perché dico fittizio? Inizialmente l’industrializzazione ha portato un aumento nella produzione di merci con una progressione di poco superiore a quella del passato. Anche se di poco superiore, questa progressione aumentò enormemente la disponibilità delle merci e abbassò il loro prezzo. Al contempo il progresso tecnologico creò nuovi beni, servizi e soprattutto nuovi bisogni: l’industria dell’intrattenimento, ad esempio, è “recente”, ha circa 100 anni; come pure altri settori industriali (auto, frigoriferi, televisione, computer) e altri servizi (servizi finanziari, l’industria del marketing, della pubblicità, del turismo di massa, e così via). Chiaramente la tecnologia ci ha portato immensi benefici: la qualità della vita è enormemente migliorata, e questo è innegabile.Ma questo ci ha resi ciechi di fronte ai pericoli intrinseci, e ci “impedisce” di impostare una analisi seria della situazione attuale. La crisi mondiale ci impone di analizzare la situazione attuale, soprattutto perché, nonostante gli indici di produttività segnino un aumento costante, non altrettanto si può dire con la disoccupazione, vecchia e nuova: nell’ottobre del 2010, gli studi del FMI evidenziarono come non solo non si era ancora assorbita la disoccupazione creata con la crisi del 2008, ma che bisognava “creare” almeno 40 milioni di posti di lavoro annui (su questo punto si veda il rapporto dell’autunno scorso del FMI, su cui mi soffermerò un altro girono), per reggere le pressioni di chi si affacciava al mondo del lavoro nei paesi occidentali, in quelli arabi e senza contare le pressioni demografiche cinesi.Come si spiega l’aumento di produttività, con un indice di disoccupazione che non mostra sensibili miglioramenti? Spesso il problema si pone e viene discusso a livello nazionale, ed è una cosa logica se consideriamo che i politici devono rendere conto al loro elettorato: un politico italiano deve “tutelare” chi lo ha eletto, e quindi gli elettori italiani, la stessa cosa per i politici tedeschi (ricordiamo come la Merkel ritardò molto gli aiuti alla Grecia, proprio perché aveva prima bisogno del consenso popolare della Germania), francesi, statunitensi, cinesi e così via. Ma questo non risolve il problema, perché non lo individua correttamente. Il problema, come ho accennato prima, risiede nel fatto che ormai la tecnologia, permette una produzione sempre più automatizzata, con tassi di efficienza e produttività sempre più alti e sempre meno bisogno di manodopera umana. Per fare degli esempi: nell’industria dell’auto gli impianti sono quasi totalmente automatizzati e una fabbrica con 7000 operai può oggi produrre lo stesso quantitativo di macchine che prima producevano 20.000 operai. Altro esempio è nell’industria dei microchip: oggi si può produrre lo stesso quantitativo di microchip del 2000, impiegando solo un quarto della forza lavoro che serviva nel 2000: in pratica oggi con 25 operai si produce quanto 10 anni fa producevano 100 lavoratori. E questo processo è in atto da anni, solo che non ce ne rendevamo conto, perché con il progresso tecnologico si creavano nuovi settori produttivi (ad esempio il marketing) e nuovi bisogni (ad esempio fino a 20 anni fa, chi aveva bisogno di un cellulare?) su cui si spostava la forza lavoro in eccesso degli altri settori. Oggi purtroppo non si riesce più a creare nuovi servizi, o nuovi prodotti, si tende a migliorare ciò che c’è, e anzi si procede ad una automazione sempre maggiore. In Francia le aziende hanno bloccato le assunzioni, come anche in Italia, e la Germania tiene grazie alle esportazioni, ma anche nel paese della Merkel si notano i primi rallentamenti. Pensare che una nazione possa lavorare ed esportare a tempo indeterminato, è utopico: la tecnologia e il sapere sono facilmente esportabili e replicabili. Il Brasile, la Cina, l’India ne sono un esempio. E quando i lavoratori cinesi e indiani passeranno dall’agricoltura all’industria, cosa avverrà?

Un altro esempio sono gli uffici pubblici o privati: un tempo i documenti dovevano essere archiviati, e vi erano enormi archivi cartacei e persone che si occupavano del loro controllo e dell’archivio, ma oggi con i computer, questo stesso lavoro può essere svolto da una persona.

Le banche, ad esempio, stanno investendo molto sui servizi via internet e sui bancomat “evoluti” dove si può non solo prelevare, ma anche pagare utenze e depositare soldi.
Ma se queste operazioni si possono fare da casa o tramite bancomat, viene meno la funzione di chi lavora allo sportello e con il tempo molte filiali potrebbero chiudere.Giusto per citare una notizia di questi giorni la banca britannica Barclays  ha annunciato che potrebbe tagliare circa 3mila posti di lavoro nel 2011 nell’ambito del piano per ridurre i costi. Il numero uno del gruppo, Bob Diamond, ha detto nel corso di una conference call, che nel primo semestre c’e’ stata una riduzione di 1.400 posti. Il gruppo ha chiuso i primi sei mesi dell’esercizio con un utile netto in calo del 38% a 1,50 miliardi di euro a fronte di un risultato di 2,43 miliardi registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Ma allora quale è la soluzione? Rifiutare la tecnologia? Assolutamente no. Come ho detto la tecnologia ha migliorato la nostra qualità di vita.

Semmai la risposta può essere nel cambiare la nostra struttura sociale, e per fare ciò bisogna che questo problema si ponga a livello internazionale portando avanti nuove regole comuni a tutti.

Il progresso tecnologico, avrebbe dovuto portarci a lavorare meno: con un minore numero di ore di lavoro si può produrre lo stesso quantitativo di prodotti di qualche anno fa.

Oggi, ognuno di noi, tende a lavorare più degli altri, ma la tecnologia ci permetterebbe di lavorare di meno e lavorare tutti: meglio che lavori una persona 8-12 ore e un’altra sia disoccupata, o che tutte e due lavorino magari 4-6 ore a testa?

L’incidenza del “costo umano” con il progresso tecnologico si va riducendo, inoltre il maggiore costo di un maggiore numero di impiigati, verrebbe riassorbito perché se lavorano molte persone, queste stesse persone, avendo uno stipendio, potranno acquistare beni e servizi (mentre è lapalissiano che chi non lavora, non avendo una fonte di reddito, non può spendere).

Questa soluzione potrebbe anche non bastare o non essere gradita.

Allora si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra “beni necessari” e “beni non necessari”: per quelli necessari potrebbe provvedere lo Stato, per quelli non necessari si provvederebbe individualmente con il proprio lavoro. Ad esempio, si può pensare una abitazione standard per tutti, e poi se io lavoro e guadagno posso comprarmi una casa più bella. Il progresso tecnologico ha permesso l’abbattimento dei costi di molti beni di prima necessità.

E’ ovvio che sto solo abbozzando delle ipotetiche soluzioni, ma quel che mi preme è di porre il problema, perché solo ponendolo si può iniziare a trovare una soluzione.

Il vero problema non è la crisi contingente, ma che il nostro modello sociale di sviluppo sta mostrando la corda, ora che il progresso tecnologico ha permesso un aumento esponenziale della nostra produttività.

Se questo problema non verrà dibattuto nelle sedi apposite, dubito che avremo delle soluzioni strutturali ed efficaci ai problemi della disoccupazione mondiale

Riceviamo e pubblichiamo di Mario Pezzati

 

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Salviamo ‘sto Paese

postato il 4 Agosto 2011

“Deve esserci un accordo / se ci sta a cuore la salvezza del paese. / Salviamo ‘sto paese? Eh? / C’è bisogno di un’intesa / vogliamo tutti insieme metterci / a pensare seriamente alla ripresa? Eh? economica? Sì? / Bisogna lavorare sul concreto / bisogna rimboccarsi le maniche per incrementare la produzione e assicurare / uno stabile benessere sociale a tutti coloro / ai quali noi, per il momento / abbiamo chiesto sacrifici / vogliamo uscire a testa alta dalla crisi? Eh? / Salviamo ‘sto paese? Sì?” Queste parole di una canzone di Giorgio Gaber hanno più contenuto e senso di molti dei discorsi – ripetizione di un’ormai stanco canovaccio politico – che si sono ascoltati, durante l’informativa sulla crisi, nelle aule di palazzo Montecitorio e di palazzo Madama. A noi, in particolare, una proposta ha colpito positivamente, ovvero quella dell’On. Pier Ferdinando Casini di dar vita ad una commissione bipartisan per la crescita. È giunto il momento, infatti, che anche il nostro Paese, al pari delle altre democrazie occidentali, si ponga l’interrogativo sul ruolo e la missione che come comunità nazionale intende assumere in un orizzonte temporale almeno decennale. Probabilmente, così, si riuscirebbe anche ad arginare la perdita del senso di cittadinanza di una larga parte dell’economia e della società (si pensi alla fuga dei cervelli) – con evidente positivi benefici sull’economia nazionale – che, indipendentemente da chi sta al governo, proprio perché internazionalizzata non si sente più italiana, pur avendo il nostro stesso passaporto. La nostra modesta esperienza in significative piattaforme generazionali europee e nazionali – vuoi lo Youth Forum, lo YEPP o il Forum nazionale dei giovani – ci induce a ritenere che quanto proposto, ieri, dall’On. Casini possa avere effetti favorevoli, non solo economici, anche sociali, se naturalmente interpretata secondo dinamiche bipartisan e logiche non settoriali. Ben venga, allora, l’istituzione di una commissione nazionale per la crescita che possa, in qualche modo, inserirsi nel solco dell’esperienza della Commissione Attalì; seguendo l’esperienza di un paese, come la Francia, che aveva (e ha ancora) da affrontare e vincere sfide comuni all’Italia a partire dal problema di liberare energie e risorse per la crescita, e dalla questione dell’approvazione di riforme che promuovano i talenti, l’iniziativa individuale e collettiva, la capacità e la voglia di intraprendere, di sperimentare, di innovare, di competere, di rischiare. Non è un caso, forse, se la Commissione Attalì – così come notato dal prof. Mario Monti e dal Sen. Franco Bassanini, membri della commissione francese -, “ha suscitato in Italia, fin dal momento della sua costituzione, un’attenzione e un interesse straordinari e imprevisti. In nessun altro paese europeo, a parte la Francia, se ne è discusso e scritto quanto in Italia”. Insomma, per dirla sempre con le parole di Gaber, “bisogna far proposte in positivo / senza calcare la mano sulle possibili carenze (…) / Cerchiamo di essere realisti. Non lasciamoci trarre in inganno… dalla realtà!”

Francesco Nicotri e Riccardo Pozzi

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Caffè e quotidiano, aspettando Pier a ‘Uno Mattina’

postato il 4 Agosto 2011

“Parla Pier Ferdinando, si spengono gli Ipad”, così scrive Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera, “Casini ha dimostrato cosa significa opposizione responsabile” è il giudizio di Marco Tarquinio. Sono testimonianze e pensieri che ci confermano come –lo avevamo già colto dai giudizi degli italiani su twitter– sia stato centrale ieri l’intervento di Casini in Aula, dopo la delusione dell’intervento del Presidente Berlusconi. A seguire riportiamo alcuni articoli di stamani da leggere nell’attesa di ascoltare Pier Ferdinando Casini alle 8,45 a ‘Uno Mattina’ (Rai1). Seguirà poi la consueta rassegna stampa che oggi si aggiunge ricchissima.

Rizzo – Le attese deluse (Sergio Rizzo, Corriere della Sera)

Tarquinio – La fatica e il coraggio (Marco Tarquinio, Avvenire)

Parla Pier Ferdinando, si spengono gli Ipad. Poi i deputati corrono a fare le valigie (Fabrizio Roncone, Corriere della Sera)

Il premier parla agli elettori e snobba la proposta Casini (Ugo Magri, La Stampa)

Folli – L’urgenza della realtà, l’obbligo di cambiare passo (Stefano Folli, Sole24Ore)

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#Casini über alles. Parola di Twitter.

postato il 3 Agosto 2011

Diciamolo chiaramente: Pier Ferdinando Casini è stato il migliore. Solido, sicuro e pacato,  ma anche deciso, netto ed incisivo.  Migliore di Pierluigi Bersani, che – come ha notato acutamente Andrea Sarubbi – si è fatto scappare il tempo di mano e non è riuscito a risultare convincente, facendosi trascinare in un “dialogo tra sordi”. Un argine contro gli sproloqui del capogruppo della Lega, Reguzzoni; una risposta efficace al debutto (assai deludente, in verità) del neo segretario Pdl, Alfano che è sembrato una brutta replica del discorso del Premier. Casini non è caduto nella trappola della stanca litania del “il governo se ne deve andare” e non perché non lo pensi più, ma perché ripeterlo fa solo il gioco di questa maggioranza: è riuscito, invece, ad esporre ordinatamente priorità del Paese e a dimostrare la loro fondatezza e validità (non per nulla, il povero B. si è agitato più volte durante l’intervento del nostro leader). È riuscito anche a vanificare il gioco della maggioranza, ripetendo che solo “una fase di armistizio tra i principali partiti può salvare l’Italia”, “non improbabili governi tecnici, ma governi che nascano dalla volontà del Parlamento, dei partiti” e che “il problema oggi non è la liquidazione politica di Berlusconi”: pensare che “la fine politica di qualcuno significhi il successo” significa sottovalutare “le difficoltà che abbiamo davanti e il momento che stiamo vivendo”. E, in conclusione, ha anche lanciato dei punti fondamentali per il rilancio della nostra economia (proposte serie, almeno queste l’On. Alfano le avrà sentite?): anticipare la riforma fiscale, aumentare la tassazione delle rendite finanziarie, liberalizzare la rete energia, lanciare una Commissione per la Crescita.

Ma che queste cose le diciamo noi, certo, è ovvio. E, allora, per dimostrarvi che non stiamo esagerando o montando un caso che non esiste, abbiamo fatto un giro su Twitter: fatelo anche voi, leggerete delle chicche assai interessanti. C’è chi è notevolmente stupito (EgonSadaiel nota che “#casini molto meglio di #Bersani: ci rendiamo conto?”, mentre martinacarletti è ancora più esplicita: “#Casini gli sta facendo il c***. Non me l’aspettavo”. C’è anche chi è fiducioso fin dall’inizio (marcoz984: “#Casini farà l’intervento migliore”) e chi alla fine si complimenta onestamente (calamityjane: “E comunque Casini best in class #berlusconicamera”; tigella: “Parla Casini, che mi sembra il favorito a diventare il prossimo Premier italiano, se le cose vanno avanti così”; mammonss: “#Casini parla di Borsa e spread. Bravo”). Riga ammette: “Fu così che Casini ha guadagnato punti in crebilità. Ringraziamo Bersani che oscura tutto il valore del programma del PD”; openworldblog poi si sbilancia addirittura: “mi preoccupo di aver ascoltato un @Pierferdinando Casini molto sensato (e di sinistra). Ecco, l’ho detto”;  idem anche per Gaboganasa: “quello di Casini sembra il discorso più sensato. E ciò mi spaventa”. Ci sono poi pure gli entusiasti come andrea_viliotti che urla: “W Casini! Quanto hai ragione!”; la_maddy: “Finalmente qualcuno (Casini!!!) Parla di ABOLIZIONE DELLE PROVINCE e fa proposte concrete!”; gius_catalano: “Casini una spanna sopra a tutti”.

Come vedete, il nostro giudizio sulla pregevole  qualità dell’intervento di Pier (che trovate qui) non è fazioso e non è nemmeno  unilaterale, anzi è largamente condiviso, specialmente sui social network. Complimenti Presidente, siamo orgogliosi di te.

“Riceviamo e pubblichiamo” Giuseppe Portonera

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