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Quali Eurobond? E per quale politica?

postato il 25 Agosto 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Mantovani.

Pare che stia cadendo il veto franco-tedesco sugli Eurobond, ed è un bene. Oltre che per ragioni contingenti di difesa dei debiti sovrani, rappresentano la naturale evoluzione dell’Euro ed un passo importante verso l’integrazione dell’Europa monetaria. Per di più, in questa fase di crisi di fiducia nei confronti del debito USA, sarebbero una novità probabilmente gradita dai mercati.
Ma quando parliamo di Eurobond, cosa intendiamo esattamente? E come intendiamo utilizzarli?
La lettera di Prodi e Quadrio Curzio al Sole 24 Ore pubblicata lo scorso 23 agosto ha il pregio di fare il punto sulle proposte in campo e di aggiungerne una quarta, sicuramente degna di considerazione. Inoltre, mentre altre proposte hanno per lo più un intento difensivo, questa tenta di coniugare propositi di stabilizzazione e di sviluppo. Tale proposta rimette quindi al centro la politica, troppo assente da questo dibattito, apparentemente destinato alle stanze dei tecnici.
La proposta dei nostri economisti si colloca a tutti gli effetti nell’alveo degli interventi di stampo keynesiano, che dovrebbero garantire lo sviluppo attraverso investimenti pubblici (in infrastrutture nel caso specifico). Cedendo le riserve auree delle banche centrali nazionali a fronte dell’impegno ad acquistare debito, gli Stati completerebbero un percorso di cessione della sovranità monetaria all’Europa, in cambio di un aiuto più efficace in caso di difficoltà a collocare il proprio debito. Ma è l’altro tipo di garanzia che mostra la vera natura della proposta: le quote delle grandi società di rilevanza nazionale (operanti per lo più nell’energia e nelle infrastrutture) diverrebbero così difficilmente cedibili, con la scusa di difenderle dalla speculazione. Pare quasi il preludio di una grande IRI europea, che potrebbe non dispiacere a molti governanti.
L’utilizzo dell’effetto leva sul Fondo così costituito (da riserve auree più partecipazioni) aumenterebbe inoltre il debito complessivo dell’Eurozona, pur riducendo quello dei singoli Stati. L’effetto è quindi un aumento dell’intermediazione pubblica nell’economia europea, a prezzo di un indebitamento ulteriormente crescente, che toglierebbe ogni speranza di una politica fiscale meno penalizzante di quelle attuali.
Il pregio della proposta è di essere politica, ma è questa la politica più adatta per rafforzare l’Eurozona?
E davvero basterebbe a stabilizzare il debito degli Stati? Per questo secondo obiettivo non sarebbe più efficace emettere Eurobond ed impiegarli per acquistare corrispondenti emissioni di debito degli Stati, riservate all’agenzia europea emittente, a tasso identico a quello degli Eurobond, fino a concorrenza del 60% del PIL di ciascun Paese, indipendentemente da situazioni di difficoltà o meno? Gli Eurobond sarebbero garantiti solidalmente da tutti i Paesi dell’Eurozona, potendo anche contare su risorse specifiche del bilancio UE e da una sorta di privilegio sulle entrate fiscali degli Stati.
In questo modo i Paesi virtuosi avrebbero zero o poco debito proprio da emettere, se escludiamo le emissioni “tecniche” riservate all’emittente europea. Gli altri avrebbero quote più o meno alte di debito da sopportare e tendenzialmente da azzerare, dovendo sopportare oneri finanziari che impediscono la riduzione delle imposte, ma in quantità molto più limitate rispetto al PIL e senza indebolire le garanzie. Potrebbero anche cedere quote di società partecipate, a questo scopo.
Quanto agli investimenti in infrastrutture, i vincoli non sono tanto di natura finanziaria quanto politica: project financing e/o project bond servirebbero molto meglio allo scopo. Il problema è riuscire a superare il localismo e gli interessi particolari (vedi i corridoi ferroviari e stradali, ma anche gli oleodotti).
Ciò che davvero preoccupa (e preoccupa molto i mercati finanziari) è il nanismo politico dei governanti europei, spaventati di perdere consenso e condizionati da troppi interessi particolari. Dicano con chiarezza come vorrebbero che fossero la UE e l’Eurozona, i tecnici per realizzare il disegno non mancheranno.

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L’ultimo trucco di Tremonti: la tassazione delle rendite finanziarie

postato il 25 Agosto 2011

Tremonti è riuscito a fare l’ennesimo gioco degno del miglior illusionista: ci fa volgere lo sguardo in un punto, ci fa vedere una cosa e poi ne appare un’altra.

Un mago migliore di Silvan e di Copperfield, degno dei nostri applausi se non fosse che i suoi trucchi li paghiamo cari ed amari.

L’ultimo trucco di cui voglio parlare, è quello della tassazione sulle rendite finanziarie, passate dal 12,5% al 20%, tassazione che, afferma, non riguarderà i titoli di Stato. Ne siamo sicuri?

Secondo il tesoro dalla tassazione sulle rendite finanziarie al 20% si può ottenere un aumento di gettito annuo pari a 1,919 miliardi di euro, stando a quanto afferma la Relazione Tecnica.

Tutti credono che questa tassazione riguardi solo le contrattazioni di borsa, ovvero il capital gain, termine inglese per indicare i guadagni che si ottengono comprando e vendendo titoli finanziari.

Come funziona il capital gain? Il guadagno o la perdita su ogni operazione di vendita viene calcolato sottraendo al prezzo di vendita al netto delle commissioni il prezzo di acquisto (prezzo di carico o fiscale) comprensivo delle stesse. Quando un titolo azionario viene comprato in più tranche viene calcolato un prezzo medio in base alla media dei prezzi di ogni operazione d’acquisto, ponderata con le quantità. Quando in un solo giorno vengono effettuate più operazioni sia di acquisto che di vendita il prezzo medio di acquisto/vendita viene calcolato come la media dei prezzi di ogni acquisto/vendita ponderata per le quantità acquistate/vendute. Avremo un capital gain in caso di differenza positiva tra i valori finali di vendita e di acquisto. La contabilizzazione ai fini fiscali di un capital gain (plusvalenza) o di una perdita (minusvalenza) dipende dalla valuta con cui viene regolata l’operazione. Le minusvalenze possono essere compensate con le plusvalenze entro i successivi 4 anni. Questo regime riguarda i piccoli risparmiatori principalmente, perché dal 12,5% sono esclusi i grandi patrimoni, le partecipazioni rilevanti e le società finanziarie e bancarie che hanno un regime fiscale a parte (con una tassazione pari a circa il 49%).

Fin qui è tutto chiaro. Ma negli anni passati il governo dal capital gain ha preso poche centinaia di milioni, e se vi aggiungiamo l’andamento delle borse di queste settimane, dubito fortemente che si possa raggiungere la cifra prevista da Tremonti.

Allora il Ministro ha sbagliato i conti? Assolutamente no, perché l’aumento di tassazione non riguarda solo il capital gain, ma tutte le rendite finanziarie (parliamo sempre escludendo i grandi patrimoni e le società finanziarie che, come già detto, hanno un altro regime fiscale).

Cosa intendiamo quindi con rendita finanziaria?

Le rendite finanzierie sono tutti i proventi e gli interessi (attivi e passivi) che un prodotto finanziario può generare al momento della sottoscrizione, alla chiusura dell’anno di imposta o al momento del realizzo da parte delle persone fisiche, società di persone, ditte individuali, società di capitali ecc, per semplificare sia persone fisiche sia persone giuridiche.
Possono consistere a titolo di esempio, in azioni o  titoli di Stato, depositi di conto corrente, Bot, obbligazioni, mutui, riporti e contro termine e anche semplici impieghi di capitali diversi però dall’acquisto di partecipazioni al capitale di rischio di imprese.

Tremonti ha affermato che l’aumento di tassazione non riguarda i titoli di Stato, e su questo eravamo d’accordo, ma, siccome non mi tornavano i saldi previsti dal Ministro, mi sono documentato, e ho scoperto che in realtà, in caso di cessione di titoli di Stato la tassazione sarà al 20% come in generale per il capital gain. Volendo essere molto espliciti: i Bot e i Btp avranno l’ imposta al 12,5% se li si tiene fino alla scadenza, ma se sono venduti prima del tempo, si pagherà l’aliquota al 20%. Inoltre questa aliquota maggiore si pagherà anche sugli interessi che le obbligazioni pagano e sui dividendi erogati dalle azioni, andando quindi ad impattare non solo su chi negozia titoli, ma anche su chi li acquista e li mantiene per lunghi periodi di tempo.

A questo punto, i conti tornano, però è chiaro che l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, non riguarda i grandi patrimoni e di certo non colpisce solo gli speculatori, ma anche i soliti noti.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati

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Vengano messe all’asta le frequenze televisive

postato il 24 Agosto 2011

Nel pieno del dibattito sulla manovra finanziaria e su dove reperire i soldi e sui tagli da operare, c’è una proposta seria e concreta per reperire circa 3 miliardi di euro (euro più, euro meno): perché non vendere le frequenze televisive? Il governo ha tra le mani circa 6 frequenze nazionali di cui 5 per il digitale terrestre, mentre la sesta frequenza può veicolare la televisione in mobilità (il Dvbh)  visibile su cellulare o su un tablet.

Nel 2009, quando furono individuate queste frequenze si decise di regalarle agli editori nuovi o vecchi come Rai e Mediaset, che avessero certi requisiti. Ora, il 6 settembre prossimo, partirà la preselezione delle emittenti candidate ad ottenere le frequenze.
Giustamente l’on. Roberto Rao afferma: “un’asta per l’assegnazione delle frequenze tv digitali risponderebbe innanzitutto a un’esigenza di equità e trasparenza, principi che questo governo ha finora maltrattato. Siamo ancora in attesa di sapere perché sono state sottratte le frequenze da 61 a 69 solo alle emittenti locali e perché è stato consentito agli operatori nazionali già presenti sul mercato di partecipare al ‘beauty contest’ per i nuovi multiplex. Solo nei paesi dove la democrazia e dunque il pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo non sono di casa viene concessa la possibilità di fare informazione in base a criteri discrezionali. Un conto è mettere tutti in condizione di aggiudicarsi questi spazi, un altro – conclude – è favorire i soliti noti: bella differenza, solo questo esecutivo fatica inspiegabilmente a coglierla”.

Si ricorda un precedente molto importante: la vendita delle frequenze per la telefonia mobile avvenute nel 2001. All’epoca il Garante per le Comunicazioni spiegò come assegnare agli operatori della telefonia un certo tipo di frequenze, suggerendo che le frequenze venissero date agli operatori attraverso una gara ad inviti stimando che si potessero ricavare circa 3000 miliardi (di lire). L’allora presidente del consiglio, Giuliano Amato, decise di non seguire il consiglio del Garante e procedette ad un’asta, con il risultato di ottenere la bellezza di 26.750 miliardi di lire (pari a 13 miliardi di euro), effetto proprio dell’asta competitiva. Purtroppo i tempi sono stretti, entro il 6 settembre si procederà all’inizio dell’assegnazione delle frequenze, ma questo non significa che i tempi non si possano spostare anche di poco tramite un emendamento.

Non dico che otterremmo quella cifra, ma sicuramente è lecito supporre che si possano ottenere 3 miliardi di euro e, in ogni caso, sarebbe sempre meglio e più equo, procedere ad un’asta piuttosto che regalare gratis questo piccolo tesoro di frequenze televisive.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Gheddafi, ultimo atto.

postato il 23 Agosto 2011

Dopo oltre 150 giorni di combattimenti, caratterizzati da fortune alterne per entrambi gli schieramenti, sembra che per il Colonnello le ore siano ormai contate.

I combattenti del Comitato Nazionale di Transizione controllano ormai la capitale libica.

La Guardia Presidenziale, l’unità di elite del regime, si è arresa.

Radio e televisioni, che in questi mesi hanno propagandato la voce del regime chiamando il popolo al massacro degli oppositori, tacciono.

Fino a qualche ora prima dell’arrivo dei ribelli, hanno trasmesso nastri registrati dal Rais. Ora non sono più il megafono del regime.

A Tripoli la gente si è riversata nelle strade per accogliere i le milizie del C.N.T.: stridono nella memoria le immagini di un Gheddafi stanco che qualche settimana fa arringava poche centinaia di persone nella centralissima Piazza Verde, nel tentativo di mostrare al mondo la potenza di un regime già in caduta libera.

Sono state smentite le voci sul fatto che due figli del Colonnello siano prigionieri degli insorti: tra questi il secondogenito Saif al-Islam, che nei disegni del padre avrebbe dovuto prendere in mano le redini del regime.

Proprio in merito a ciò si apre una delicata questione politica: ora che la dittatura si appresta a vivere le sue ultime ore, tra defezioni sempre più numerose (ultima in ordine di tempo ma non certo di importanza, quella del comandante della Guardia Presidenziale), quale sarà la sorte dei funzionari e dei politici, specialmente di alto lignaggio, che in oltre 40 anni sono stati l’ossatura del regime?

Quale sarà la sorte del Rais se venisse catturato?

La Libia non aderisce infatti alla Corte Penale Internazionale: su di essa non grava alcun obbligo in merito all’estradizione del leader e dei suoi familiari.

I leader politici occidentali si sono spesi per ricordare agli insorti che la liberazione del Paese non deve trasformarsi in un bagno di sangue. Tuttavia lo scenario è molto complesso.

La struttura del potere in Libia, in questo simile a molti Stati del continente africano, si è articolata e consolidata negli anni grazie al clan da cui il Rais proveniva.

Del tutto disomogenea dal punto di vista clanico  si mostra la compagine di governo del C.N.T.: da un lato essa rappresenta in maniera più democratica la società libica, raccogliendo le istanze di quelle tribù escluse dal potere o vessate per decenni.

Nondimeno, sono evidenti due rischi molto gravi per la stabilizzazione del Paese: il primo è che il clan del Colonnello venga fatto oggetto a sua volta di feroci violenze a seguito delle inevitabili epurazioni dagli apparati amministrativi e di governo; il secondo invece coinvolge direttamente gli insorti, i quali potrebbero aprire un fronte interno, specialmente quando le contingenze della guerra saranno venute meno, per determinare i rapporti di forza nel post-Gheddafi.

Un segnale importante di quanto si rischi l’instabilità politica e di quanto la Libia sia divisa è data dall’intervento dei berberi del deserto contro i beduini del clan al potere.

La frattura non è solamente clanica, all’opposto anche etnica. I berberi, per anni posti ai margini della società libica, ora reclamano la propria parte nella vittoria: sono stati tra i primi a sollevarsi, partendo da minuscoli villaggi ai bordi del deserto, ma col tempo assestando colpi letali alle truppe lealiste che si trovavano ad operare con uno spazio di manovra sempre più ristretto.

Senza un intervento chiaro e legittimante da parte di quegli stessi Paesi che quasi sei mesi fa si sono assunti la responsabilità di mettere fine alla repressione, c’è il rischio che la nascente democrazia libica piombi in un nuovo medioevo di lotte fratricide. L’Italia sembra aver rinunciato a giocare quel ruolo determinante che è suo di diritto: è importante ricordarci che ciò che avviene a qualche centinaio di miglia a Sud delle nostre coste, rientra non solo nella nostra politica estera, ma è persino una priorità interna.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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E’ utile abolire le province? Risponde Roberto Occhiuto

postato il 21 Agosto 2011
Lettera in redazione:
Premettendo che sono un dipendente a tempo indeterminato di un’azienda speciale della Provincia di Milano, vorrei porre alcuni quesiti.
Spesso si parla di abolizione delle Province. Spesso si ritiene che siano la causa del debito pubblico. Nella totalità degli interventi si tralascia di specificare delle conseguenze:
1) cosa accadrà ai 60000 dipendenti che forniscono ai cittadini servizi essenziali?
2) dato che i soldi stanziati dallo Stato sono diretti a coprire i costi del personale, verranno licenziati?
3) quale il vantaggio altrimenti per i conti dello Stato.
Credo che l’abolizione delle province  sia uno specchietto per le allodole. Sarebbe impopolare dire che la maggior parte degli sperperi siano riconducibili alla sanità ed alla previdenza. Io percepisco 1200 € e sono conscio degli abusi nella P.A., ma sono anche convinto che una maggiore attenzione vada data a termini ed argomenti che potrebbero suscitare plauso ed altresì preoccupazione in chi da sempre fa il suo dovere.
La demagogia non dev’essere fatta sulla pelle dei lavoratori.
Grazie.
Luca

Caro Luca,
ho letto il suo commento e penso che abbia ragione di lamentarsi della demagogia con la quale si sta discutendo in questi giorni della Manovra. Le assicuro che infastidisce anche noi, perché, benché all’opposizione, avvertiamo la responsabilità di essere parte del gruppo dirigente del Paese e sappiamo bene che in questo momento la politica dovrebbe dimostrare ben altra tempra.
Proprio perché siamo allergici alla demagogia abbiamo detto che l’abolizione parziale delle province non serve a nulla, é solo uno spot ed è ridicola.
Altra cosa, invece, sarebbe stata abolire tutte le Province, così come ogni partito aveva scritto sul proprio programma elettorale prima di lasciare solo noi a sostenerlo in Parlamento. Le assicuro che, per quanto mi riguarda, non ne faccio tanto una questione di risparmio per la finanza pubblica: le Province oggi costano circa 12 MLD l’anno e –  siccome é evidente che i dipendenti giustamente non potranno essere licenziati e che molti altri costi dovranno comunque essere sostenuti da Comuni e Regioni che ne erediterebbero le funzioni – il risparmio non sarebbe poi così significativo (sicuramente varrebbe meno della maggiorazione dell’IVA di qualche decimale).
Sono convinto, invece, che abrogare le Province sia utile a riorganizzare i livelli di governo del territorio, che in Italia sono davvero troppi e che rendono la presenza e l’intermediazione dello Stato troppo invasive e costose per cittadini e imprese, soprattutto sotto il profilo dell’appesantimento burocratico.
Sono certo, come Lei, che non basti abrogare le Province. Per esempio, ha ragione a evidenziare gli sprechi nella Sanità, per combattere i quali stiamo chiedendo da tempo che non sia la politica a nominare i manager; in sostanza, noi vorremmo meno intermediazione politica anche nella gestione della Sanità.
Da qualche parte, però, bisognerà pure iniziare per far fare allo Stato una grossa cura dimagrante, che riguardi i costi della politica (a cominciare da quello dei dirigenti come me), ma anche l’ordinato funzionamento del governo locale, che dovrebbe esistere per erogare servizi, mentre oggi troppo spesso serve, invece, ad alimentare il ceto politico.
Sono convinto, infine, che ai cittadini interessi soltanto che continuino ad essere assicurati i servizi, anche grazie a dipendenti come Lei. Che, poi, non ci sia il Presidente o il Consiglio provinciale, qualche sagra o qualche manifestazione da sponsorizzare credo sia meno importante.

Roberto Occhiuto (deputato UDC, Vice Presidente della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione)

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Siate sempre pronti a testimoniare la Speranza nell’immensa certezza di una Presenza

postato il 21 Agosto 2011

Mentre sto scrivendo circa due milioni di giovani sono radunati nella piazza dello scalo Cuatro Vientos di Madrid nella grande veglia di preghiera in attesa dell’aurora e della celebrazione eucaristica di domenica mattina con Benedetto XVI che chiuderà la XXVI° Giornata Mondiale della Gioventù. Cosa stanno cercando questi giovani e chi o che cosa li ha richiamati fin qua?

La prima Giornata Mondiale della Gioventù risale alla domenica delle Palme del 1986 sulle radici del Giubileo Internazionale della Gioventù svoltosi in occasione dell’Anno Sacro della Redenzione per ricordare il 1950° anniversario della Risurrezione del Signore.  Trecentomila giovani provenienti da più parti del mondo giunsero in Piazza San Pietro, ospitati da circa seimila famiglie romane. Nell’occasione papa Giovanni Paolo II consegnò una croce di legno ai giovani per simboleggiare l’amore del Signore Gesù per l’umanità .  “Siate siete pronti a testimoniare  la Speranza “ fu il messaggio del pontefice ai giovani. Come doveva essere difficile parlare allora ai giovani di Speranza!  Anni bui in cui si aggirava minaccioso lo spettro della Guerra Fredda e i moti liberali e sindacali dell’Europa Orientale erano schiacciati dal pugno di Mosca, anni in cui l’Italia era stretta nella morsa dell’odio del terrorismo nero e rosso e lo stesso Giovanni Paolo II solo tre anni prima veniva gravemente ferito nell’attentato terroristico di Ali Agcà. Eppure in quegli anni di paura, intolleranza e incapacità di sollevare il proprio sguardo verso il futuro, si dimenava nei cuori un inesprimibile desiderio di libertà che ben presto sarebbe scoppiato disegnando un nuovo mondo.

Ancora oggi è difficile parlare di Speranza, anzi, è molto più difficile. Non sono più le ideologie a gettare l’uomo in catene ma al contrario è il Nulla ad accecare la nostra vista e i nostri cuori.  C’è una constatazione semplice e allo stesso tempo drammatica: nella mentalità diffusa ai nostri giorni, nelle fatiche del vivere quotidiano sembra non sia più possibile nessuna certezza. Viviamo tante crisi che mettono in discussione conoscenze acquisite da tempo e non solo nel campo della politica e dell’economia. Lo percepiamo nel mondo del lavoro, lavoro in cui i giovani pur essendo ancora non entrati lo percepiscono come un fenomeno lontano, astratto, guscio di candida conchiglia vuota, rancida carne di mollusco, interinale, subordinato, usa e getta, navigato, soddisfatto e mai rimborsato. Lo percepiamo nella società dell’amore di plastica dove l’amore è una chimica chimera che attiva solo ormoni e dopammina incapace di incamminarsi in un progetto auntentico e duraturo in una società liquida dove tutto scorre, dove tutto è consumo. Quello che è in gioco oggi è qualcosa di più radicale, è la grande ombra del nichilismo, l’ospite inquietante che turba i nostri tempi e frantuma i nostri sogni con le nostre certezze e i nostri desideri. E’ il Nulla e l’angoscia del Nulla, del vuoto che guarda dentro di te.

Questi due milioni di giovani non sono a Madrid per  una vacanza o una kermesse, sono qui in cerca di qualcosa o qualcuno che dia un senso genuino alla loro esistenza. Cercano qualcosa che li renda protagonisti della loro vita, che li porti a una presenza nella società fatta di una comunione visibile e propositiva, e cercano in primo luogo  di essere felici ponendosi in modo perentorio , clamoroso e anticonformista quella domanda di un senso ultimo e di una felicità da percepire all’interno dell’essere umano, vogliono la Bellezza, vogliono la Verità, vogliono la Giustizia che la lunga mano dell’ospite inquietante ha ucciso!

Questi due milioni di giovani non vogliono un sentimento, vogliono un fatto è quel fatto è una presenza, è Gesù Cristo centro del cosmo e della storia che rende unica e autentica la realtà, quella linea di confine in cui la storia e il mistero dell’uomo si incontrano. Cercano un Dio che non è un principio assoluto assiso nel’alto dei cieli ma fonte di amore, amore puro e disinteressato, amore indissolubile, fiamma d’amore che li renda protagonisti nella loro vita e riguardi tutti gli aspetti del loro essere. Un testo cristiano del II° secolo, la lettera a Diogneto, così descrive i cristiani:

“ I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale . La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale”

I cristiani dunque si comportano come tutti, ciò che cambia è lo spirito che li anima nel fare le cose, uno spirito di Speranza perché hanno un’immensa certezza, l’incontro di un fatto, di una presenza che non li abbandona mai, nemmeno  nelle nelle oscure e fitte nebbie del Nichilismo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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Se Bossi non parla più al profondo nord

postato il 20 Agosto 2011

Le vivaci contestazioni subite dai ministri Bossi, Calderoli e Tremonti in occasione della loro recente permanenza tra le montagne del Cadore hanno probabilmente sorpreso solo gli osservatori meno attenti; era infatti noto a molti come da qualche tempo covasse un chiaro malcontento anche tra gli elettori ed i simpatizzanti leghisti più convinti.

Quello che pare invece essere più sorprendente è l’annullamento del previsto incontro pubblico e la conseguente “ritirata strategica” operata da Bossi in piena notte stravolgendo i piani di ospiti ed interlocutori amici e contrari. E’ infatti una delle prime volte, se non la prima, che il grande istrione rinuncia al confronto con la folla, abbandonando la piazza e dando così un’immagine del tutto opposta a quell’iconografia che di solito lo accompagnava.

Certo l’episodio va inquadrato nel preciso momento storico, all’indomani del varo di una manovra economica aggiuntiva che va ad incidere duramente sulle finanza degli enti locali e dei comuni cittadini; sarebbe però sbagliato ed oltremodo riduttivo pensare che si tratti di un evento isolato e fine a se stesso.

La luna di miele tra Bossi ed il suo elettorato pare infatti essersi guastata già da qualche mese e gli effetti negativi possono essere rintracciati già nei dati delle Elezioni Europee del 2009. Prendendo l’esempio dei dati elettorali della Regione del Veneto, si scopre facilmente come nelle elezioni politiche del 2008 per la Camera la lega Nord abbia raccolto 830.000 voti pari al 27,1 % dei voti validi; dopo un solo anno alle Europee del 2009 la lista della Lega Nord era salita al 28,4 % dei voti espressi ma scendendo in termini assoluti alla cifra di 767.000 consensi.

Alle Regionali del 2010 pur avendo un candidato popolarissimo quale Luca Zaia la lista non ha saputo fare meglio che raccogliere 788.000 voti e cioè 50.000 voti circa meno del 2008 e solo la scarsa affluenza alle urne ha permesso di mascherare il vistoso calo di consensi; basti ricordare che in Veneto nelle elezioni politiche del 1996 la Lega Nord aveva sfiorato la cifra di un milione di voti.

Pare quindi che l’elettore leghista si stia stancando dell’eterno copione recitato dal partito di Bossi, quello della “Lega di lotta e di governo” o “dottor Jekyll e mister Hyde” come altrimenti chiamato. Le evidenti contraddizioni tra quanto promesso nei comizi sul territorio e quanto prodotto nelle aule parlamentari hanno finito per intaccare anche la carismatica figura del leader.

E nemmeno casuale deve essere considerato il luogo dove è avvenuto il “gran rifiuto”, uno di quei piccoli Comuni di montagna cui questa ultima manovra finanziaria assesta probabilmente un colpo mortale. Quei piccoli Comuni di montagna dove il sindaco spesso non riceve alcun compenso, dove quasi tutti si conoscono per nome ed il sindaco è il primo da chiamare, anche in piena notte, quando succede qualcosa. Quei piccoli Comuni di montagna dove si fa politica per essere utili alla comunità e non per arricchirsi visto che, molto spesso, le spese di tasca propria sono molto superiori delle entrate.

Proprio quei piccoli Comuni di montagna che la manovra di questo governo intende azzerare, indicandoli come responsabili degli sprechi della Pubblica Amministrazione; quei piccoli Comuni di montagna che, messi tutti insieme, costano all’anno come una decina di parlamentari.

I tagli indiscriminati agli enti locali, che si sommano a quelli già effettuati negli ultimi due anni, stanno pregiudicando ogni possibilità di garantire anche i minimi livelli dei servizi locali e neanche il promesso federalismo fiscale potrà migliorare la situazione, visto che si limiterà ad attribuire la libertà di aumentare i tributi locali per sopperire ai minori trasferimenti.

Quello che i montanari sanno bene è che 30 chilometri in pianura si percorrono in 20 minuti mentre in montagna può volerci un’ora e per quei 30 chilometri in pianura bastano due litri di benzina mentre in montagna ce ne vuole il doppio; queste cose semplici i montanari non riescono a farle capire a chi li governa.

Ma i montanari, gente abituata a lavorare e tacere, a volte si stancano di ascoltare promesse che sanno perfettamente essere vane; per vivere in montagna sono indispensabili due qualità: la pazienza e la buona volontà ma qualche volta la prima si esaurisce!

Riceviamo e pubblichiamo Roberto Dal Pan

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“Ci battiamo per l’anima della Nazione”. Ricordando Alcide De Gasperi.

postato il 19 Agosto 2011

Il 19 agosto del 1954 si spegneva Alcide De Gasperi.  A distanza di cinquantasette anni la sua lezione umana e politica è ancora valida ed attuale e desideriamo ricordarlo dalle nostre pagine dando nuovamente spazio alle sua parole che profeticamente tracciavano l’anatomia di un Partito della Nazione.

Ci battiamo per l’anima della Nazione

Anche oggi, amici, ci battiamo per l’anima della Nazione e per vincere questa battaglia abbiamo bisogno che in mezzo a questo popolo martoriato e quasi schiacciato dai problemi economici ma pur sempre assetato di idee e di ideali, si elevino al disopra delle cure quotidiane, gli uomini del pensiero, dell’arte, i cultori della poesia, gli araldi della scienza.

Ci fu un tempo in cui la democrazia delle arti e mestieri venne accompagnata da un’aristocrazia di artisti e di pensatori. Non si deve credere che il regime democratico si esaurisca nei piani quinquennali o dodecennali di produzione agricola e industriale, che le fonti energetiche indispensabili alla nostra rinascita debbano essere ricercate solo nelle acque defluenti dai nostri ghiacciai o fra i gas della terra; bisogna, amici, scavare più a fondo ancora, nella intimità degli spiriti, negli abissi misteriosi della moderna anima. agitata e s esso travolta, e cercarvi le sorgenti primitive della nostra si fonderle e conciliarle con le esigenze e con le aspirazioni del regime libero.

Certo la democrazia moderna avrà pochi cortigiani e scarsi mecenati; ma può offrire ai pensatori e agli artisti lo spettacolo della solidarietà consapevole, il respiro della libertà morale e sopratutto il senso della fraternità sociale.

Io penso che questo senso sia l’aspirazione più viva dell’anima popolare.

Il Machiavelli ci insegnò come governare; Frate Savonarola come governare e come morire. In questa dura campagna troppi predicarono odio, l’odio della demolizione o l’odio della vendetta. Ma il popolo

italiano ha bisogno di fraternità e di amore. Tutti ne abbiamo bisogno, i milioni di poveri che reclamano un’opera di redenzione sociale, appena cominciata; i milioni del ceto medio che mantengono a fatica, nelle accresciute esigenze, il decoro della vita; i milioni di giovani contesi e straziati da opposte fazioni. Più amore, più fraternità, più pace.

Con questo arcobaleno vorrei chiudere la mia fatica elettorale. Quando, migliorando il tenore di vita dei miseri, avremo fatto un passo definitivo verso la giustizia sociale; quando, nell’ordine e nella libertà, avremo sprigionato tutte le sane energie popolari, allora, o democrazia italiana, in questa atmosfera rinnovata dalla solidarietà cristiana, sorgerà anche il grande artista della tua epoca, interprete del sentimento che ti ispira e ti muove; il pennello farà allora risplendere ancora la luce del Suo volto nel Cenacolo ed il sorriso del Suo amore Divino*.

Alcide De Gasperi

*A.DE GASPERI, Nel Partito popolare italiano e nella Democrazia cristiana, Roma, Cinque Lune, 1990, Vol II, pp.493-502.

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Banda larga, un’altra promessa tradita

postato il 19 Agosto 2011

La bozza della manovra prevede di affossare definitivamente il progetto di sviluppo della banda larga in Italia rendendo impossibile colmare il gap che ci separa dagli altri paesi.

Il progetto relativo allo sviluppo della banda larga è “in piedi” da un paio di anni ed è stato elaborato dal ministro Romani, ma nel corso del  tempo questo progetto ha visto ritardi, risorse sottratte, e tagli ai finanziamenti anche già stanziati.

Il progetto nel suo complesso prevedeva un investimento di circa 1,4 miliardi di euro che avrebbe portato ad una crescita di 2 miliardi di euro nel PIL .

In pratica un investimento realizzato dallo Stato che avrebbe abbattuto le barriere tecnologiche e sarebbe stato un’arma in più per le nostre imprese, con il risultato che il ritorno economico sarebbe stato superiore a quanto si sarebbe speso.

Il finanziamento era così organizzato: 800 milioni provenienti dal CIPE, 250 milioni provenienti da Infratel Italia (società sorta nel 1999 su iniziativa del Ministero per lo Sviluppo Economico), 100 milioni dai fondi Fas e 250 milioni li avrebbero dovuto mettere i privati.

Ebbene, prima i fondi provenienti dal CIPE sono stati congelati fino alla fine della crisi, poi ne sono stati sbloccati 100.

Con 700 milioni già decurtati, la mancata partecipazione dei privati, restavano i soldi dei fondi FAS (quelli di Infratel sono già stati spesi), che però sono spariti in seguito ai tagli ai ministeri proposti nell’ultima  manovra.

Il progetto di sviluppo della banda larga senza fondi è, purtroppo,  destinato a restare lettera morta, e va ad aggiungersi alla collezione governativa delle tante buone intenzioni troppo spesso tradite.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati

 

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Un anno senza Cossiga

postato il 17 Agosto 2011

Esattamente un anno fa Francesco Cossiga si spegneva al Policlinico Gemelli di Roma in una calda giornata agostana. A distanza di un anno in pochi hanno sentito la necessità di ricordare questo politico di rara intelligenza e di grandi doti umane e politiche, forse perché Cossiga rimane un personaggio scomodo avendo egli avuto la rara qualità di dire e di fare sempre quello che pensava e sentiva. Prezioso il ricordo di Enzo Carra che si chiede cosa avrebbe detto oggi Cossiga, davanti alla crisi economica e soprattutto alla manifesta incapacità politica di coloro che in situazioni difficili scelgono di non scegliere. Cossiga visse momenti ben più difficili e dolorosi di quello che noi stiamo vivendo e ricordava che i suoi capelli bianchi e le macchie sulla pelle erano dovuti proprio a questi travagli del Paese che diventarono i suoi personali, eppure egli seppe sempre scegliere, seppe prendersi le sue responsabilità fino alle estreme conseguenze. Francesco Cossiga concepiva la politica come l’arte di saper prendere delle scelte ma considerava anche doveroso essere responsabili di queste scelte. Ricordare oggi Cossiga significa invitare la classe politica tutta, in specie quella che ha compiti di governo, a saper fare delle scelte e a sapersi assumere la responsabilità di queste avendo come unico criterio il bene del Paese e la salvaguardia della Repubblica.

Adriano Frinchi

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