Casini compie 70 anni: «Forlani staccava il telefono per l’Inter. Natta mi parlava in greco. Craxi? Una volta si voltò ruggendo….»
Il compleanno di Pier Ferdinando Casini: «Gli incontri segreti al casello con Franceschini in eskimo. Mastella sospettoso, ma sa fare politica»

Che cosa gli puoi chiedere a Pier Ferdinando Casini, che oggi compie 70 anni? (Appunti per l’intervista: ne ha trascorsi 42 in Parlamento, eletto 11 volte, più due passaggi a Strasburgo, quindi presidente della Camera, con partiti fondati e cambiati, nel centrodestra e ora nel centrosinistra, ma sempre restando democristiano, un democristiano ambizioso, simpatico, furbo, che conosce il peccato originale e sa molto se non proprio tutto di quanto è accaduto tra la Prima e la Seconda Repubblica — curiosità: abita in piazza del Gesù, dalla finestra del salone si scorge il leggendario palazzo in stile barocco che fu sede della dicì, la nostra Balena bianca, come scrisse Giampaolo Pansa).
Buon compleanno, presidente. Ha nostalgia del passato?
«Non mi piacciono quelli che stanno lì a ripetere quanto un tempo la politica fosse migliore. Però rilevo che era diversa, questo sì».
Perché, nel 1973, a 18 anni, mentre i suoi coetanei pensano di rovesciare l’Italia, lei sente l’esigenza di andare a un comizio di Arnaldo Forlani?
«Frequentavo il liceo Galvani di Bologna, c’erano picchetti, non ci facevano entrare. Allora organizzai un gruppo di giovani studenti, diciamo così, democratici. Poi un giorno non sapevamo dove stampare un volantino. Chiesi consiglio a mio padre Tommaso: che mi suggerì di andare nella sede della Dc, di cui era stato segretario provinciale, animato da pulsioni degasperiane… fu l’inizio della mia militanza».
Con una carriera fulminea tra i dorotei, al fianco di Antonio Bisaglia.
«Però, quando poi mi candidai alla Camera, e avevo 27 anni, andai a chiedere i voti anche ai gruppi giovanili dei morotei. E al loro leader di Ferrara, Dario Franceschini. Le correnti, all’epoca, erano una cosa seria. Con Dario, perciò, ci vedevamo di notte al casello dell’autostrada. Io arrivavo con la mia Golf Gti nera e lui spuntava dal buio con l’eskimo…».
Nel 1994, dopo Mani pulite, quando la Dc si spacca, lei non segue Mino Martinazzoli nel Ppi, ma fonda con Clemente Mastella il Ccd e si allea con Silvio Berlusconi nel Polo.
«La dicì non muore per Tangentopoli, ma per la caduta del Muro. A me sembrava evidente che fosse crollato in testa alla Dc, non certo al Pci. Il quale, anzi, nello scenario geopolitico, aveva smesso d’essere un pericolo. Nessuno si sarebbe più dovuto turare il naso per votare dicì e impedirgli di andare al governo. Per questo speravo, e a lungo ho sperato, in un centrodestra egemonizzato da noi centristi. Ricordo bene tutti i continui tentativi con il Ccd prima, e l’Udc poi, di frenare certe pulsioni di Berlusconi… In questo senso, lo ammetto: mi sento uno sconfitto. Perché l’attuale governo con il centro non ha nulla a che fare: è, a tutti gli effetti, di destra».
Com’era Berlusconi?
«Un lavoratore pazzesco. Con una costanza parossistica, una determinazione egocentrica. Ma di animo buono. Mai colta particolare acrimonia nei confronti di qualcuno. Sebbene su questo bisognerebbe forse sentire anche Fini».
Una volta Mastella disse: potremmo chiamarci Clemente Casini e Pier Ferdinando Mastella.
«Uomo di carattere complesso, sospettoso. La politica, però, Clemente sa come si fa».
Poi ci fu l’esperienza dell’Udc. Che condivise con Marco Follini. Gira voce che i rapporti tra voi siano gelidi.
«È un pezzo della mia vita. Io gli voglio bene».
Cos’è stata la Dc?
«Un grandioso partito della nazione. Che ha favorito la crescita e lo sviluppo, garantendo agli italiani un perimetro democratico».
Il più grande democristiano?
«Fanfani. Anche se non ho frequentato Moro. Però Fanfani è l’uomo del piano casa ed è stato pure…».
L’uomo che si batté contro il divorzio e l’aborto.
«Senta: quelle furono cambiali pagate alla Chiesa. L’aborto ancora ancora… ma sul divorzio: è chiaro che anche un grande partito popolare come il nostro aveva avvertito le esigenze dettate da certi precisi cambiamenti sociali… Comunque stavo ricordando che Kennedy, da presidente degli Stati Uniti, chiese a lui, a Fanfani, una mediazione per la pace in Vietnam».
Oggi, qualche volta, sui vertici per l’Ucraina nemmeno ci avvertono.
«Il livello era, oggettivamente, altissimo. Una volta, alla buvette, Alessandro Natta, al tempo presidente del Pci, s’avvicina: “Certi compagni di Bologna mi dicono che lì prendi tanti voti: dove hai studiato?”. Al Galvani, rispondo. “Anche io al classico!”. Beh, da quel giorno, ogni volta che m’incontrava, mi parlava in latino o in greco… Un altro mondo».
Continui.
«Saragat si presenta a votare per l’elezione di Cossiga. Io lo stimavo moltissimo. Lo incrocio in un corridoio e penso: finalmente posso conoscerlo! Macché: gli arrivo a un metro e torno indietro. Ero troppo imbarazzato. E nemmeno da Craxi volevo andare, eh».
Cioè?
«Ma niente: mi sembra ci fosse in ballo un problema sulle televisioni. Allora Forlani mi fa: “Vai tu a parlare con Bettino”. Gli dico: ma se non sa nemmeno chi sono! E lui: “Lo sa, lo sa…”. Craxi stava confabulando con De Michelis. M’accosto e, educatamente, segnalo la questione. Ma quello si volta… ruggendo. E mi fa: “Sei cretino?”. Al che, replico con fermezza: “No, guardi, se la mette su questo piano…”. Parole magiche. Perché a quel punto Craxi mi prende sottobraccio e mi porta in giro per il Transatlantico dicendomi cose belle, piene d’umanità».
Lei, al Senato, ha ereditato l’ufficio che fu di Giulio Andreotti
«Andreotti era lo Stato. Fu, infatti, più volte presidente del Consiglio, ma mai segretario del partito. E aveva una grande visione sul mondo».
Con un debole per la Sicilia.
«Non era Belzebù. Guardi: io non sono mai stato andreottiano, sebbene si dicesse che fosse così abile da avere correnti dal Msi al Pci: quando però lo accusarono di essere mafioso, sentii il dovere di essere al suo fianco nell’aula bunker di Palermo».
Lei, in realtà, è stato a lungo accanto a Forlani.
«Divenne segretario alla fine degli ‘80, succedendo a De Mita. Donat-Cattin non sopportava il fatto che, quando giocava l’Inter, Forlani si chiudesse in casa, mettendo la segreteria telefonica. Per questo un giorno disse: “Siamo passati dalla segreteria De Mita a quella telefonica».
Che cosa le ha insegnato, Forlani?
«A comprendere, con realismo, la scena su cui ci si muove. Un pomeriggio, Arnaldo manca l’elezione al Quirinale per 29 voti. La sera, allora, mi chiede di fargli compagnia in macchina, con l’autista che procedeva a 30 all’ora, perché aveva la fobia della velocità. Abitava all’Eur. Saliamo su a casa e, mentre il cane lupo gli fa le feste, mi congedo. E gli dico: “Dai, Arnaldo, domani riproviamo”. Lui, allora, si volta: “No. C’è un inizio, e c’è una fine. Domani puntiamo su un altro nome”. Aveva capito che Andreotti non lo voleva sul Colle. Era consapevole di quanto in politica tutto fosse relativo».
Anche lei l’ha sfiorato, il Quirinale, nel 2022. Era tutto apparecchiato, Salvini sparecchiò.
«Sa cosa ricordo, con emozione, di quei giorni? L’applauso che i grandi elettori mi tributarono quando poi feci ingresso nell’aula durante lo spoglio finale… Mattarella, Mattarella…».
Ricordo quell’applauso: fu l’onore delle armi.
«La mattina dopo mi svegliai presto, contento di potermi fare la solita camminata veloce a Villa Borghese… però appena arrivo lì, noto un gran trambusto di corazzieri: stanno facendo le prove proprio per la cerimonia d’insediamento del nuovo capo dello Stato. Li guardo con un pensiero un po’ ironico. Perciò, quando un ufficiale s’avvicina per salutarmi, gli sussurro: beh, io l’ho presa bene… ma così forse è un po’ troppo»

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