21 giugno, Roma
postato il 18 Giugno 2011Ore 14.30 – Sala stampa della Camera dei deputati (via della Missione, 4 )
Partecipa alla presentazione del libro ‘Riforme istituzionali per la Terza Repubblica´ di Pierluigi Mantini.
Partecipa alla presentazione del libro ‘Riforme istituzionali per la Terza Repubblica´ di Pierluigi Mantini.
Pontida, Bossi ha scelto: parlo solo io (Marco Cremonesi, Corriere della Sera)
“Mi verrebbe voglia di lasciare l’Italia” (Amedeo La Mattina, La Stampa)
Sarzanini – La rete gelatinosa di affari e amicizie (Fiorenza Sarzanini, Corriere della Sera)
Dai ministri a Casini, tutti solidali con Letta (Mario Ajello, La Stampa)
Sicilia, si blinda l’intesa col Terzo polo (Clavo Rudy Francescaro, L’Europa)
Clandestini, ripristinate le espulsioni dirette (Alberto Custodero, La Repubblica)
Legge elettorale. Segni, Pd e Radicali contro i referendari (Corriere della Sera)
Tre quesiti contro la legge porcata (Il Fatto Quotidiano)
Vassallo – Quattro regole per snellire le Province (Salvatore Vassallo, Corriere della Sera)
“A Pontida traccerà la linea”. Di queste frasi ne abbiamo sentite a bizzeffe: tante “bolle” durate il pomeriggio di un comizio come quello del prato di Pontida dell’anno scorso. I fatti ci hanno dato ragione.
Tracciare la linea? Ne hanno già tracciate molte in questi 20 anni e tutte fallimentari: ronde, sicurezza, basta clandestini, meno tasse, quote latte, identita’, dialetti, soli delle alpi, etc….
Ma la gente bergamasca non ci crede più. Dopo le “bolle del raduno 2010” in queste ore sono in distribuzione ai bambini del paese i gessetti, quelli che servono per tracciare le linee: linee che come al solito un colpo di vento o un cancellino qualunque smentiranno un altra volta.
Iniziate ad ascoltare le nostre idee: famiglie, giovani e lavoro. Riforme vere (non annunci). Ma loro parlano di modellini di “corazzate nel Mediterraneo” e poltrone ministeriali al nord. La gente del Nord chiede altro e adesso è stufa. L’agenda va spostata su cose che interessano agli italiani. Lo diciamo con affetto agli amici della Lega.
I tagli lineari sono incompatibili con qualsiasi seria iniziativa di riforma, anche fiscale. Nelle attuali condizioni di finanza pubblica e anche nelle difficoltà che sta attraversando l’Europa e’ impossibile avventurarsi in grandi riforme fiscali se non c’e’ la capacita’ di selezionare i tagli. Tremonti ha il merito di non aver dilatato oltre misura la spesa ma i tagli lineari sono il segno che manca la politica, manca la capacita’ di scegliere, di selezionare e colpire gli sprechi.
Pier Ferdinando
L’Italia peggiore… I precari ‘svogliati’, che non hanno voglia “di andare al mercato a scaricare cassette di frutta e verdura”, che passano il tempo sulla Rete usandola “come un manganello per agguati squadristici”. Hanno suscitato indignazione e polemiche le dichiarazioni del ministro Brunetta a margine del convegno “Giornata dell’innovazione”. Tutto ha avuto inizio quando un gruppo di precari ha chiesto la parola per porre delle domande al ministro che, dopo aver ‘inquadrato’ gli interlocutori, ha abbandonato la sala apostrofandoli come ‘l’Italia peggiore’ e scatenando un coro di ‘buffone’ e ‘vai a lavorare’. [Continua a leggere]
Partecipa alla presentazione del volume: “Dallo scranno più alto – Discorsi parlamentari di insediamento dei Presidenti della Camera dei deputati (1861-2008)”
Il dibattito sull’energia è un groviglio di fenomeni e valutazioni su cui incidono svariati temi tecnici, economici e socio-politici ed in cui nessuna ipotesi operativa è esente da punti deboli e rischi. Esso è stato semplificato dall’esito del quesito referendario cosiddetto “sul nucleare”, che ha eliminato da esso un’intera opzione, appunto l’energia nucleare.
L’affluenza alle urne è stata inattesa, al di là delle più ottimistiche previsioni. All’interno della percentuale di votanti è stata altrettanto inattesa la risposta quasi unanime ai quesiti, poiché varie forze politiche e comitati hanno suggerito agli elettori di andare a votare indipendentemente dalle loro preferenze. Questi dati annullano la portata dell’obiezione che il quesito in oggetto, in base al significato letterale, riguardasse la necessità di adottare un piano energetico in generale in Italia, essendo impensabile che oltre 25 milioni di Italiani abbiano inteso votare contro tale necessità. L’unica interpretazione è quindi che essi hanno votato Sì al quesito secondo il significato simbolico conferito a tale risposta, ossia contro il nucleare. E’ altrettanto impensabile che così tanti elettori siano stati contagiati da un’ondata di emotività, o da un “pensiero unico” che non c’è stato, essendo stato concesso spazio equamente tanto ai sostenitori del nucleare che ai suoi detrattori. Ancora, non resta che ammettere che una larga parte degli elettori contrari al nucleare ha maturato la sua scelta per il ragionevole dubbio sui livelli di sicurezza delle tecnologie attuali, dopo che l’incidente di Fukushima li ha tragicamente messi in discussione, e che non si è fidata della capacità del Governo attualmente in carica di ridefinire di conseguenza il suo programma nucleare, nemmeno dopo che esso ha deciso una moratoria proprio a tale scopo.
Una così massiccia e motivata avversione all’energia nucleare ha improvvisamente vanificato l’utilità di ogni discussione sui suoi vantaggi, svantaggi e rischi, poiché si tratta di un’opzione scartata, e, come detto sopra, ha ridotto il grado di complessità della questione energetica italiana, poiché viene meno una delle alternative che erano state prese in considerazione, appunto l’inserimento del nucleare nel mix di generazione di energia elettrica. La riduzione di alternative non può che rafforzare il peso di quelle superstiti, ossia i combustibili fossili e le fonti rinnovabili, mentre i problemi aperti restano immutati. In particolare, devono essere risolti in altro modo quelli che il nucleare avrebbe mitigato rispetto al ricorso ai combustibili fossili, ossia:
ed è immediato che le fonti rinnovabili rispondono a queste esigenze.
Ciò che le fonti rinnovabili al momento non risolvono, rispetto al nucleare, è la generazione di rilevanti volumi di energia elettrica, per cui il ricorso alle fonti fossili è imprescindibile, almeno per il prossimo decennio. E’ altrettanto indiscutibile, tuttavia, che è in atto un “conto alla rovescia”, in cui l’economia, la ricerca, l’industria e gli stessi cittadini devono favorire il raggiungimento della produzione di energia da fonti rinnovabili ai volumi necessari per manentere la qualità della vita attuale, a costi ed impatti ambientali sostenibili, prima di arrivare all’esaurimento delle fonti fossili. Chiaramente, la rinuncia al nucleare ha ridotto il tempo a disposizione. Ed ancora, non si può ragionevolmente pretendere che a tale scadenza la tecnologia ed i processi produttivi siano maturi per raggiungere i suddetti obiettivi di costi e volumi se non si sostengono fin da adesso la filiera industriale e gli ambiti di ricerca che riguardano le fonti rinnovabili.
La decisione di rinunciare al nucleare, alla luce delle presenti considerazioni, comporta senza appello l’accelerazione dello sviluppo delle fonti rinnovabili, che in Italia è in ritardo. Fra le cause di tale ritardo c’è un’avversione preconcetta, come dimostrano opposizioni non fondate su dati scientifici, come per esempio il presunto impatto delle turbine eoliche sull’attività del lupo, o che un semplice sopralluogo potrebbe confutare, come per esempio l’illazione che un parco eolico su terreno agricolo vi impedisca la coltivazione o perfino la crescita di manto erboso. Altre forme di opposizione si basano su motivazioni che hanno avuto riscontro in passato, ma le cui cause sono state risolte; eppure, curiosamente, esse persistono: per esempio la rumorosità delle turbine eoliche, anche se nei modelli recenti è nulla o trascurabile; oppure la realizzazione di parchi eolici in aree non sufficientemente ventose per sfruttare finanziamenti a fondo perduto, una forma di incentivazione che da anni non è più possibile, se non nelle Regioni a statuto speciale. Infine, ci sono motivazioni oggettive per l’opposizione alle fonti rinnovabili, come per esempio l’impatto visivo degli impianti, soprattutto degli aerogeneratori di grossa taglia e dei parchi fotovoltaici a terra. Nel “groviglio” di fenomeni che riguardano l’energia non mancano, purtroppo, comportamenti inaccettabili da parte di operatori senza scrupoli, come episodi di corruzione per ottenere le autorizzazioni, dichiarazioni false e truffe per ottenere incentivi e sconti fiscali , oppure altri comportamenti meno gravi e nell’ambito della legalità, ma comunque da scoraggiare, come le richieste di autorizzazione finalizzate alla rivendita (a caro prezzo) della stessa e non alla realizzazione dei progetti presentati, o i prezzi dei pannelli fotovoltaici “gonfiati” indebitamente grazie a tariffe incentivanti evidentemente non perfettamente calibrate.
Si tratta quindi di discriminare fra i problemi reali e quelli falsi causati dalle fonti rinnovabili, da parte della classe politica ma anche dei cittadini, i quali ultimi hanno dimostrato, invertendo la tendenza degli ultimi anni, di voler partecipare maggiormente ai processi decisionali relativi all’energia. La rinuncia definitiva al nucleare obbliga più che mai l’Italia a rilassare, altrettanto definitivamente, vincoli, come il rispetto dell’estetica, di secondaria importanza rispetto alla sicurezza nazionale, all’economia del Paese, alla salute dei cittadini e alla tutela dei diritti umani nel mondo. Occorre certo continuare a denunciare i casi di pratiche scorrette nel campo delle fonti rinnovabili e lavorare ai meccanismi regolatori per scoraggiarle, ma al tempo stesso fare pulizia di “leggende metropolitane”, fantasmi del passato, fobìe, accuse precostituite contro operatori seri. Questo anche informandosi meglio e discriminando fra l’informazione corretta e quella fuorviante, quest’ultima purtroppo proveniente anche dalle testate più apprezzate con frequenza e superficialità sconcertanti. Soprattutto, occorre che quella nuova maggioranza di Italiani che ha consapevolmente votato contro il nucleare sia coerente con le conseguenze delle proprie scelte; essere, a questo punto, contrari all’intervento militare in Libia o alle fonti rinnovabili sarebbe un comportamento irresponsabile ed ipocrita, nocivo al benessere futuro dell’Italia e della sua onorabilità.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Vittorio Olivati
I precari contestano Brunetta: «Insultati» (Fabrizio Caccia, Corriere della Sera)
Brunetta liquida i precari. È bufera (Gianni Santamaria, Avvenire)
Camusso: «Brunetta non ha umorismo» (Unità)
Quella Fiom santoriana (Mario Lavia, Europa)
Ricatti, arrestato Bisignani (Corriere della Sera)
Bisignani, quel ponte tra prima e seconda repubblica (Antonio Vanuzzo, Linkiesta)
L’inizio della corsa dei due outsider (Tommaso Labate, Il Riformista)
Sondaggi, sorpasso del centrosinistra (Mauro Favale, La Repubblica)
E con Pdl e Pd, la Lega salva le Province (Marco Palombi, Liberal)
Province, nessuna soppressione (La Padania)
Dio c’è, Twitter ci fa (Il Foglio)
In Siria, la Primavera Araba non ha nulla che ricordi il dolce clima della Bella Stagione, si è abbattuta come un uragano sul regime degli Assad.
Il popolo siriano, fiero ed eroico, da ormai quasi tre mesi sfida la repressione del regime, che non lesina violenze per continuare a perpetrare la propria ossessiva e disperata sete di potere, dissetandosi ogni giorno col sangue di decine di uomini e donne colpevoli di desiderare la propria libertà.
La situazione politica Siriana è certamente molto complessa, benché il fenomeno delle Rivoluzioni che hanno investito gran parte dei paesi dal Nord Africa al Medio Oriente sino al Golfo Persico sembri uniforme, esso va letto nell’ottica delle strutture sociali che sono predominanti nei singoli Paesi interessati. In Egitto ed in Tunisia i movimenti di rivolta hanno raggiunto in breve tempo il proprio obbiettivo, anche grazie ad un tessuto sociale più omogeneo e non polverizzato dall’appartenenza a distinti clan e tribù; ciò ha permesso anche la secolarizzazione dei movimenti di protesta, consentendo l’esclusione da parte dello stessa società civile, di elementi vicini al fondamentalismo.
Diversi sono i casi della Libia, della Siria e dello Yemen. Il regime di Gheddafi poteva contare sino a poco tempo fa su di un efficiente apparato repressivo, retto da membri della sua tribù d’origine, tutt’ora fedeli al rais. L’intervento internazionale ha pesantemente compromesso la possibilità di soffocare nel sangue con successo la rivolta, che divampa tra i clan e le tribù storicamente rivali del Colonnello, concentrate nella Cirenaica.
In Yemen, il fenomeno tribale si fonde in una pericolosa miscela col fondamentalismo islamico; è alto il rischio che lo stato del Golfo, in caso di una prolungata instabilità politica, possa sprofondare in una condizione simile alla Somalia, divenendo un buco nero internazionale.
La Siria a sua volta versa in una situazione diversa rispetto a quelle testè analizzate. Il regime della famiglia al-Asad è al potere ininterrottamente dal 1971. Il padre dell’attuale presidente, Hafiz al-Asad riusci a prendere il controllo del partito di maggioranza nel paese, il Baath, trasformandolo in breve tempo nell’unico ammesso nella vita politica. Paradossalmente il partito Baath, socialista e nazionalista era lo stesso al potere in Iraq sotto la guida di Saddam Hussein, tuttavia i rapporti tra le due nazioni furono a lungo molto tesi in quanto i vertici alla guida dei rispettivi partiti rappresentavano due linee politiche avverse. L’apice dello scontro fu raggiunto nel 1991, con l’adesione della Siria all’Operazione Desert Storm a guida statunitense.
Il “Camerata Combattente” (come la propaganda definiva il dittatore) faceva parte di una minoranza religiosa sciita, quella Alawita, di cui fa parte anche l’attuale capo di stato, Bashar al-Asad. L’appartenenza a questa minoranza permise da una parte di tenere accentrato il potere nelle mani di una ristretta cerchia di persone; il problema si fece tuttavia rilevante quando negli anni ’80 i Fratelli Musulmani, forte movimento sunnita, si sollevarono nel paese, liberando la città di Hama. La reazione del regime anche allora fu incredibilmente dura: Hafiz al-Asad, ex generale dell’aeronautica, ordinò l’assedio ed il bombardamento con l’artiglieria. Nella repressione che seguì alla caduta della città si stima che le vittime fossero state tra le 10.000 e le 20.000.
Il regime fu scosso solo dal proprio interno, con alcuni tentativi di golpe mai portati a termine: il più famoso fu quello promosso dallo stesso fratello del presidente. Una volta sventato, fu inviato su ordine diretto del capo di stato in “missione permanente” in Francia.
Negli anni ’90 si fece pressante il problema della successione nella carica di presidente. Originariamente il delfino era Basil al-Asad, figlio maggiore di Hafiz e fratello dell’attuale rais. Tuttavia, alla sua morte in un misterioso incidente stradale, fu designato questo schivo giovane oftalmologo come erede al trono. Bashar, ritenuto da sempre poco interessato alla politica successe al padre nel 2000. Il mondo ripose in lui nei primi anni una flebile speranza di modernizzazione e progressiva apertura del paese.
Apparve però presto chiaro che i poteri forti del regime indirizzavano la sua linea politica verso una continuità con quella paterna, dimostrandosi tuttavia a tratti persino più intransigente, come nel caso dello stop imposto ai negoziati iniziati dal defunto presidente con Israele per la risoluzione della questione del Golan. Bashar oggi incarna la parabola di una continuità perversa; un giovane leader che non riesce a smarcarsi da una politica ormai superata, la cui legittimazione promana esclusivamente dall’alto ed è totalmente scissa dalla volontà popolare, la perpetrazione di un sistema politico vecchio, che lotta per non annegare nel mare della Rivoluzione.
L’Occidente si è dimostrato cauto, ma non a torto: in ballo c’è la partita nucleare con l’alleato storico della Siria: l’Iran. E’ evidente che un intervento più incisivo delle sanzioni in discussione in questi giorni da parte del Consiglio di Sicurezza, non sarebbe immaginabile. Nel paese convergono infatti gli interessi strategici degli attori internazionali che si oppongono al declinante potere degli Stati Uniti: la Russia, con la sua base navale a Tartus e la Cina, che vede nella Siria la testa di ponte per una penetrazione in Medio Oriente, non sembrano interessate a mettere in discussione la propria strategia geopolitica e le commesse di armi per diversi centinaia di milioni di Euro.
Nella partita gioca un ruolo rilevante la consapevolezza di questi stati di rischiare di trovarsi domani un governo ostile se la Rivoluzione avesse un esito positivo, rischio che ad oggi sembra siano disposti a correre, appoggiando tacitamente la repressione siriana. Israele intanto attende gli sviluppi di una situazione che potrebbe invece alleggerire la pressione dei paesi confinanti sui propri confini.
Siria e Israele sono tutt’oggi ufficialmente in guerra, poiché sin dalla conclusione della Guerra dei Sei Giorni, ed in seguito da quella dello Yom Kippur, non fu mai siglato un trattato di pace. Tel Aviv occupa ancora il 95% delle Alture del Golan, posizione strategica che consente allo Stato Ebraico di avere una preminenza militare ed un vantaggio in termini di gestione delle risorse idriche regionali.
Con l’ascesa al potere di Bashar al-Asad, sono tornati a soffiare venti di guerra sul confine, culminati nell’ operazione “Orchard” delle forze aeree israeliane nel 2007, diretta ad arrestare l’avvio di un programma atomico siro-iraniano nel sito di Al Kibar. In Libano le conseguenze delle proteste potrebbero essere altrettanto incisive. La storia dei rapporti tra il Paese dei Cedri e l’ingombrante vicino è da sempre difficile.
Nel 1976 fu dispiegata in Libano una forza multinazionale a guida siriana, per tenere sotto controllo l’escalation di violenza a seguito dell’esplosione della guerra civile. Benchè sin dagli anni ’80 il mandato non fosse stato rinnovato dal governo libanese, la presenza militare siriana permase sino al 2005.
Il ritiro fu ultimato a seguito delle proteste popolari per l’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri in un attentato dinamitardo, che una commissione d’inchiesta indipendente ha attribuito ai servizi segreti di Damasco. Noto è anche il coinvolgimento insieme all’Iran, nel finanziamento di movimenti riconducibili alla galassia fondamentalista, tra cui preme ricordare Hezbollah.
La maggiore aggressività mostrata dal giovane presidente in politica estera nei primi anni di governo potrebbe essere dovuta ad una necessità di legittimarsi di fronte all’ala oltranzista dell’establishment. In tutto ciò la diplomazia europea potrebbe avere una funzione potenzialmente decisiva, visti gli interessi economici che l’Iran, spesso visto come deus ex machina delle decisioni di Damasco, nutre nei confronti del Vecchio Continente.
Sta alle potenze occidentali trovare il coraggio di schierarsi con i popoli oppressi che chiedono a gran voce una cosa troppo a lungo negatagli: la Libertà.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti
C’era chi, nemmeno troppo tempo fa, aveva frettolosamente decretato – dal palco di un teatro palermitano – che l’Udc siciliano, scegliendo di sostenere il governo di Raffaele Lombardo in Sicilia, e non quello di Silvio Berlusconi a Roma, aveva decretato la propria morte. Questi stessi fini e attenti osservatori politici hanno poi passato molto del loro tempo (tante erano le cose cui dovevano badare) a spiegarci che un partito di centro schierato al centro non può avere più successo, che il nostro futuro poteva essere solo nel nostro passato e che per questo dovevamo tornare a fare il centro del centrodestra: né più né meno un’appendice del Pdl; e così, mentre noi – ingenui testardi – siamo rimasti lì dove eravamo sempre stati, i nostri amici si sono accasati responsabilmente, sono entrati a far parte a pieno titolo del Governo nazionale e vagheggiano ora la costruzione del Partito Popolare italiano, sul modello di quello europeo, da costruire con Formigoni e Alfano e la partecipazione dei popolarissimi La Russa, Gasparri e Santanchè.
Come si suol dire, però, non si può pensare di poter vendere la pelle dell’orso senza averlo prima ammazzato. E infatti, dopo mesi di annunciata morte, l’esito della tornata elettorale che ha interessato la Sicilia il 29 e 30 maggio e il 12 e 13 giugno, ha raccontato un film diverso da quello che in tanti avrebbero voluto vedere. Eh sì, perché – stranamente, chissà come mai! – questo Udc siciliano non è affatto morto e – sempre stranamente, sempre chissà come mai! – ha ottenuto percentuali in linea con il passato e con i propri compagni di coalizione ha vinto in 7 comuni su 11 chiamati al voto e conquistato i comuni di Porto Empedocle, Sortino e Bagheria con il proprio candidato. Proprio la vittoria nel comune di Bagheria, poi, assume il valore e significato più importante, per vari motivi: primo, perché qui si sfidavano direttamente Terzo Polo e Pd contro Pdl e PiD; secondo, perché i due candidati alla carica di sindaco erano uno Udc e l’altro PiD; terzo, perché il nostro candidato vincente, Vincenzo Lo Meo, ha aderito all’Udc solo dopo il 14 dicembre ed è rappresentante, quindi, della “rinascita” del nostro partito; quarto, perché Bagheria è sempre stata feudo elettorale proprio del Ministro Romano. La sfida bagherese era diventata un vero e proprio derby: dopo mesi e mesi di discussione, era arrivato finalmente il momento di misurarsi realmente, sulla base dei numeri e non delle chiacchiere. E il risultato è stato palese, innegabile. La Repubblica di Palermo di oggi, con un articolo a firma di Emanuele Lauria, mostra come l’Udc e tutto il Terzo Polo siano riusciti a superare le varie difficoltà e a vincere, proprio perché in Sicilia, più che nel resto d’Italia, sono stati in grado di intercettare il voto moderato in uscita dal Pdl e dal centrodestra, principalmente grazie a un impegno costante sul territorio.
E fa sorridere, certo, sentire ora parlare di “una vittoria dovuta solo a grandi ammucchiate” gli stessi che solo qualche mese fa ci davano per sicuramente morti: perché è solo un vano tentativo di coprire il nostro successo, costruito sui programmi, sulle proposte e su una coalizione sempre più forte. Sarà difficile per il centrodestra isolano far finta di niente: quello che si siamo riusciti a costruire in Sicilia, che è sempre stata il granaio del Pdl, è la prova più tangibile del tracollo della “maggioranza” berlusconian-leghista-responsabile. Ha ragione il coordinatore regionale Udc D’Alia, quando parla di terza sberla al Cav, dopo le cocenti sconfitte a Milano, Torino, Bologna e Napoli e il 96% di sì ai referendum. Una prospettiva che, proiettata sul piano nazionale, rappresenta il nucleo fondamentale della discussione sulla strategie politiche del Terzo polo che stiamo costruendo e al centro del quale si è posto di certo l’Udc. Non a caso Pier Ferdinando Casini ha subito sottolineato il fatto che “il Terzo polo è decollato” e che ora “si possono prospettare nuove forme di collaborazione anche con il Pd”. Se il “laboratorio Sicilia” darà i suoi frutti a livelli nazionale si vedrà. L’importante, per ora, è godersi la meritata vittoria. Specie dedicandola ai vecchi amici che ora tanto si lamentano: perché, come si dice dalle nostre parti, “l’aceddu nda gaggia canta o p’immidia o pi raggia”.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera
Nella foto, Pier Ferdinando Casini con Vincenzo Lo Meo, nuovo Sindaco di Bagheria, dietro, fra gli altri, il Coordinatore Regionale UDC Sicilia Gianpiero D’Alia.