Rassegna stampa, 30 aprile 2011
postato il 30 Aprile 2011Casini: «Quel giorno coronò il suo amore per l’Italia» (Roberto Zuccolini, Corriere della Sera)
Bossi annuncia la mozione sulla Libia (Ugo Magri, La Stampa)
Casini: «Quel giorno coronò il suo amore per l’Italia» (Roberto Zuccolini, Corriere della Sera)
Bossi annuncia la mozione sulla Libia (Ugo Magri, La Stampa)
Troppe parole inutili e troppi silenzi sul primo maggio. La festa dei lavoratori, come purtroppo tante feste italiane, è stata come al solito preparata da una polemica sterile, questa volta sulle aperture degli esercizi commerciali nel giorno di festa. Polemica sterile non per l’oggetto ma per il modo di squisitamente ideologico di condurla. Bene ha fatto il Post a rilevare che: «è difficile vedere nella chiusura obbligatoria per i negozi una reale battaglia per i diritti dei lavoratori, così come è difficile ignorare l’evidenza che si tratti di una tappa delicata nella ridiscussione del funzionamento del lavoro nell’epoca contemporanea e che quindi la questione non si riduca semplicemente a un giorno di lavoro in più o in meno». C’era dunque e c’è un modo diverso per affrontare la questione e più in generale il problema lavoro. Di certo il modo non è la battaglia ideologica che appare sempre più fiacca quasi quanto l’identità della festa del primo maggio. Una volta la festa dei lavoratori celebrava con orgoglio il lavoro, la sua dignità e vitalità, oggi in tempi di disoccupazione crescente e diritti conculcati, per celebrare il primo maggio rimane solo il vacuo “Concertone”, una manifestazione ormai criticata anche a sinistra, una festa sbiadita dove confluiscono soprattutto i giovani che, come notò argutamente Ilvo Diamanti, sono “normalmente invisibile come il lavoro”. Ma è il silenzio a fare tanto male quanto le parole inutili, il silenzio di chi si occupa della cosa pubblica, il silenzio di chi dovrebbe, con uno straordinario sforzo di unità e concertazione, dare una risposta ad un Paese che ha fame di lavoro. Anche quest’anno dobbiamo penosamente rilevare una crescente disoccupazione e un impegno assolutamente scadente del governo su questo fronte. Cosa rimane del primo maggio se eliminiamo parole e silenzi? Rimane il lavoro che ripulito dalle ipocrisie e dalle scorie ideologiche deve tornare una priorità, per le forze politiche, sociali e per tutti gli italiani. Occorre tornare a pensare al lavoro, e se è il caso a ripensarlo, occorre credere veramente nel primo articolo della nostra Costituzione perché, come ha ricordato il Presidente Napolitano, l’Italia è più che mai una Repubblica fondata sul lavoro e deve tentare di “esserlo di più e non di meno”.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi
Incontro con le Associazioni delle Famiglie dei residenti del Sud Italia a Milano: ‘Milano nell’unità d’Italia da Sud a Nord’
Presentazione del candidato sindaco Manfredi Palmeri
Incontro con il candidato sindaco e i candidati Udc
Inaugurazione della sede UDC e conferenza stampa con il candidato sindaco
Incontro con il candidato sindaco e i candidati Udc
In una playlist di tre video la figura del Santo Padre nelle parole di Pier Ferdinando Casini: il ricordo di oggi, alla vigilia della beatificazione, ed il discorso da Presidente della Camera in occasione della storica visita al Parlamento italiano del 14 novembre 2002.
La beatificazione di Giovanni Paolo II può senza dubbio diventare una preziosa occasione per i cattolici e anche per i laici per riflettere e confrontarsi sul vasto e profondo insegnamento sociale del papa polacco. Ma prima di buttarsi a capofitto nel Magistero e negli scritti di Giovanni Paolo II è indispensabile, e soprattutto molto utile per capirlo, guardare alla sua vicenda personale di figlio del novecento, di uomo che ha vissuto in tutto e per tutto il “secolo breve”. Il lavoro come manovale nelle cave di calcare della Solvay all’inizio degli anni quaranta, il seminario clandestino durante la guerra, le perquisizioni della Gestapo, cui sfuggì in modo miracoloso, il continuo braccio di ferro col regime comunista polacco da giovane prete e poi da vescovo, sono tutte esperienze che hanno messo Karol Wojtila a contatto con i drammi e le speranze della condizione umana, influenzando in maniera indelebile la sua fede e la sua azione pastorale. Ma più forte dell’esperienza del male in Giovanni Paolo II è l’esperienza di Cristo, come egli stesso scrive nel racconto autobiografico “Memoria e Identità”: «non è possibile separare Cristo dalla storia dell’uomo». E’ Cristo che da nuovo senso alla storia dell’uomo, e non è un caso che la chiave di volta del pensiero sociale di Giovanni Paolo II sia la necessità di un nuovo umanesimo che vede nel Dio che diventa uomo, non solo l’essenza del cristianesimo, ma il fondamento di ogni progetto autenticamente umano, il perno per un movimento di rinascita. L’umanesimo auspicato da Giovanni Paolo II contiene una visione della società centrata sulla persona umana e i suoi diritti inalienabili, sui valori della giustizia e della pace, su un corretto rapporto tra individui, società e Stato, nella logica della solidarietà e della sussidiarietà. È un umanesimo capace di infondere un’anima allo stesso progresso economico, perché esso sia volto “alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. Tutto ciò traspare dall’insegnamento di Giovanni Paolo II e dal suo ampio magistero, e sicuramente ci sono tanti altri aspetti da sottolineare e da approfondire. Molti sono i politici che hanno incontrato Giovanni Paolo II, e molti di questi saranno presenti a Roma per la sua beatificazione ma quanti di loro si sono soffermati a riflettere sulla portata dell’insegnamento sociale di Papa Wojtila? La beatificazione, come si diceva all’inizio, può allora essere una preziosa opportunità per iniziare questo proficuo studio e forse si potrebbe iniziare da un testo agile e per molti aspetti poco conosciuto. Si tratta di uno degli ultimi discorsi di Giovanni Paolo II, fatto nel gennaio del 2005 e indirizzato al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, un discorso che secondo alcuni è possibile definire il “testamento sociale” di Papa Wojtila e che il pontefice non voleva rivolto solo ai diplomatici ma in particolare ai governi che questi rappresentavano. In questo testo Giovanni Paolo II indica ai governanti “le quattro sfide dell’umanità di oggi” – la vita, il pane, la pace, la libertà – ovvero le questioni prioritarie per costruire quella che soleva chiamare la “civiltà dell’amore”.
La prima sfida – esordiva Giovanni Paolo II davanti agli ambasciatori presso la Santa Sede – è la sfida della vita. La vita è il primo dono che Dio ci ha fatto, è la prima ricchezza di cui l’uomo può godere. La Chiesa annunzia il ‘Vangelo della Vita’. E lo Stato ha come suo compito primario proprio la tutela e la promozione della vita umana”. La sfida della vita si sta facendo oggi sempre più vasta e drammatica, ma la parola di Giovanni Paolo II è chiara: nulla che violi l’integrità e la dignità dell’essere umano, compreso la fase embrionale, può essere ammissibile. La ricerca scientifica va incoraggiata e promossa, ma non può considerarsi al di sopra della sfera morale. Una scienza che degrada l’uomo ad uno strumento non è degna dell’uomo. La vita, dunque, va protetta, tutelata, servita in ogni momento, in ogni angolo della terra. Essa non sopporta riduzioni. Difendere la vita significa anche difendere la famiglia: dare forza e solidità alla famiglia – ci insegna Giovanni Paolo II – significa contribuire ad una società ancora in grado di scommettere sull’umano; su relazioni profonde e responsabili; sulla vita; sulla dedizione come espressione naturale della maturità umana; sul futuro, su un’esperienza umana e sociale di qualità. La seconda sfida è quella del pane, ossia quella di far sì che ogni persona possa godere dei mezzi necessari alla sua vita, che nessuno debba più soffrire la povertà e la denutrizione, essere calpestato nel suo onore e reso vittima dell’ingiustizia. Sono ancora troppi oggi gli esseri umani cui non viene riconosciuta la dignità di persone o vengono di fatto privati dei diritti fondamentali. Davanti a questa considerevole porzione di umanità non possiamo restare muti, come non è rimasto Giovanni Paolo II, che ha dato voce alle folle degli esclusi e degli affamati – di pane e di giustizia- in ogni angolo della terra.
Con la stessa tenacia e determinazione, Giovanni Paolo II ha affrontato la terza delle grandi sfide dell’umanità del nostro tempo: la pace. Il secolo XX –ha scritto – ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra, è l’umanità a perdere”. Giovanni Paolo II ci ha anche insegnato che la pace è un dono che si invoca, incessantemente, con quella preghiera che crede nell’impossibile di Dio e dunque rende sempre possibile la speranza, anche nelle ore più buie. La pace è un valore che si paga: non può essere a basso prezzo: sarebbe un surrogato. Deve scomodarci e comprometterci. Per questo il Papa ha chiesto il digiuno per la pace; per sperimentare anche il disagio di qualcosa che ci manca, in solidarietà con tanti popoli cui manca il pane; per sentire nel nostro corpo quell’esperienza del limite che ci fa gridare, per noi e per il mondo, “Signore, pietà”. La pace, quindi, domanda l’impegno a costruire conoscenza e amicizia tra i popoli, a cominciare dal nostro quotidiano, riconoscendo nello straniero che incontriamo un fratello e stimando la cultura che egli esprime.
Anche quello della libertà è un altro tema particolarmente caro a Giovanni Paolo II: è lui stesso a riconoscere come alla base delle sue encicliche sociali (Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis, Centesimus annus). La libertà è la aspirazione massima di ogni donna e di ogni uomo, profonda, scritta nell’anima. È il valore per cui tanti, di ogni credo e di ogni bandiera, hanno rischiato la vita dimostrando così che solo nel rispetto della libertà si può essere persone. Oggi educare alla libertà significa riconoscere i condizionamenti, individuare le manipolazioni spesso subdole e mascherate di un consumismo che tende ad orientare comportamenti e stili di vita, riconoscere le false promesse di ogni riduzione dell’uomo alla sola dimensione orizzontale. La libertà è sacra, ma non è un assoluto, come oggi alcune correnti di pensiero tendono ad affermare. Ne è negata dal dovere di obbedire al bene che è Dio stesso. Egli ha voluto donare all’uomo la libertà perché potesse amare e riconoscere il suo amore. Non è possibile infatti amare se non nella libertà. Ed è nel nucleo più intimo di noi stessi, in quello spazio interiore che è la nostra coscienza, che sperimentiamo la libertà come grandezza, come rischio, talvolta anche come dramma. È nella coscienza che avviene la rielaborazione di tutto ciò che accade e che interpella la nostra libertà e la capacità di dare senso alla vita.
Queste quattro sfide sono senza dubbio un compito per la politica, che ne deve assicurare le condizioni fondamentali e difenderne il valore, sono in se stesse un imperativo etico, inscritto da Dio nel cuore di ogni uomo e tracciano un cammino di santità, ossia di conoscenza di Dio per la via dell’amore. Ricordare Giovanni Paolo II significa innanzitutto ricordare e mettere in pratica il suo insegnamento.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi
Richiamò politici al dovere dell’esempio e della responsabilità
La visita del Santo padre in Parlamento con quella sua invocazione finale ‘Dio benedica l’Italia’ è stato un grande atto di amore di Giovanni Paolo II verso l’Italia e verso tutti gli italiani. Il suo richiamare i politici al dovere dell’esempio e della responsabilità. Il senso di perdono e di solidarietà che ha indirizzato in quel discorso verso i carcerati, coloro per i quali chiedeva un atto di clemenza, e il richiamo ripetuto all’identità cristiana del’Europa da difendere sempre, soprattutto in un’epoca in cui dobbiamo predisporci all’accoglienza della diversità. Dobbiamo ricordarci sempre chi siamo e da dove veniamo. Questa nostra radice cristiana è un minimo comune denominatore per credenti e non.