Questo pomeriggio in Senato ho convocato la prima riunione dei presidenti delle 85 Sezioni bilaterali di amicizia dell’Unione Interparlamentare (UIP). La diplomazia parlamentare è uno strumento indispensabile che contribuisce al dialogo tra i Paesi, consente di interloquire con maggiore libertà rispetto a quanto possano fare i governi e può rafforzare le relazioni non solo sotto il profilo politico ed economico, ma anche sotto quello culturale e sociale
Appello per salvare i miliardi Ue: governo e opposizione depongano le armi
L’intervista di Paola Di Caro pubblicata sul Corriere della Sera
Ha fatto incontrare in pubblico per la prima volta il ministro Fitto (FdI) e il commissario europeo Gentiloni (Pd) per la presentazione del suo libro «C’era una volta la politica». E siccome Pier Ferdinando Casini nella politica crede ancora, il suo è un vero appello a maggioranza e opposizione: depongano le armi almeno su un tema così cruciale come il Pnrr e collaborino perché quei «miliardi di fondi pubblici» non vengano persi o sprecati: «Sarebbe mettere un fardello pesantissimo sulle spalle delle prossime generazioni. È necessario un patto per evitarlo».
Lei sa bene quanto oggi i rapporti siano tesi tra maggioranza e opposizione…
«È comprensibile. C’è una maggioranza che rischia il delirio di onnipotenza, avendo vinto in modo nettissimo e potendo ragionevolmente governare per 5 anni; e c’è un’opposizione divisa ma con nuove leadership, soprattutto quella di Elly Schlein».
E come si fa una tregua?
«Si fa se si pensa che non si è mai vista dopo il piano Marshall una tale quantità di fondi pubblici messi a disposizione di un Paese che nelle ultime decadi è cresciuto molto meno degli altri e ha l’assoluta necessità di farlo».
In cosa dovrebbe consistere questa sorta di armistizio?
«Intanto non vanno esportate a Bruxelles le risse politiche nazionali. E non serve rimpallarsi reciprocamente le responsabilità dei problemi».
Ma davvero non si possono stabilire meriti e demeriti su questo terreno?
«Io credo che sia Conte che Draghi abbiano ottenuto risultati molto importanti, ma con onestà va detto che oggi se al posto del governo Meloni ce ne fosse un altro avrebbe gli stessi problemi, che dipendono dall’ apparato della Pubblica amministrazione e dalla desertificazione delle competenze. Non è un caso che l’unica opera pubblica fatta in tempi velocissimi sia stata il Ponte Morandi a Genova, perché in deroga».
Ma una tregua non sarebbe utile solo al governo?
«Sarebbe utile al governo, ma lo sarebbe soprattutto all’Italia. E le forze di opposizione che si propongono di creare un’alleanza di governo non possono pensare solo di andare in piazza sfruttando le gaffes della maggioranza ed evitando di affrontare nodi così importanti».
A cosa pensa concretamente?
«Il governo dovrebbe lasciare da parte la presunzione di poter fare tutto da solo e l’opposizione la demagogia, e per questo serve un patto di natura politica. Poi ne serve uno istituzionale tra Regioni ed enti locali da una parte e Stato centrale dall’altra, perché le materie interfacciano tanti soggetti».
E quale sarebbe la sede del confronto?
«Il Parlamento, che oggi vedo purtroppo marginalizzato: si ratificano decreti legge — pochi —, si votano mozioni — troppe — e si moltiplicano commissioni di inchiesta che dovrebbero essere strumento straordinario e invece sembrano servire più a tenere occupati i parlamentari che a raggiungere verità».
Ma mentre lei lancia l’appello, è scontro su tutto: ultimo caso quello La Russa sulle Fosse Ardeatine, contro il quale Schlein ha già annunciato mobilitazione.
«Su La Russa, essendo stato presidente di un ramo del Parlamento, so quali siano le difficoltà e non gliene aggiungo altre: d’altra parte, che si sia scusato la dice lunga sull’errore che ha fatto… Su Schlein, capisco che un segretario così di rottura voglia cavalcare il movimentismo, ci sta. Ma bisogna scegliere i terreni sui quali l’una e l’altra parte possono battersi. E il Pnrr non deve essere tra questi, se si vuole fare il bene del Paese».
Festeggia 40 anni in Parlamento. E si definisce l’ultimo democristiano. Pier Ferdinando Casini commenta la scena politica. A partire dalla segretaria dem: una nuova Zaccagnini. L’effetto Schlein-Meloni rende vecchio tutto il panorama. Ma il vero problema della premier è la sua squadra. Sono “sbaricentrali”, in sintonia solo sui posti da occupare
La mia intervista a L’Espresso a cura di Susanna Turco
Ha quarant’anni tondi di permanenza in Parlamento; sembra averci preso gusto solo ora che non deve «più dimostrare niente a nessuno» e che può osservare in pace l’effetto Schlein-Meloni, il quale «invecchia di colpo» tutto il panorama. Alla stessa sua anzianità politica, nel 1983, Giulio Andreotti festeggiò con una serata all’Adriano, allora teatro, affollato di potenti.
Quarant’anni dopo, Pier Ferdinando Casini ha festeggiato, da senatore eletto nel Pd, con un tour di accalcate presentazioni del suo libro (“C’era una volta la politica”, Piemme) nel quale si è battezzato «ultimo democristiano». Ha sfiorato il Quirinale nel 2022, sostiene (figuriamoci) di non pensarci più: «Il potere è un’illusione ottica». Studia «le sensibilità altrui»: nello zaino ha “Storia transgender” di Susan Stryker («L’anno scorso mia figlia diciottenne mi ha apostrofato: “Non mi devo mica vergognare che non voti la legge Zan, vero? Conoscendoti un dubbio ce l’ho”»). È in treno, diretto alla presentazione di Pistoia, reduce da quella di Ferrara, dove Dario Franceschini ha ricordato di quando, nel 1975, al congresso dei giovani Dc di Bergamo, fu convinto da lui a cedergli le sue cinque deleghe. «A son parti’ moroteo, a son turna’ dorotoeo», fu il sospiro di chi guidava, nel viaggio di ritorno verso Ferrara, in cinque a bordo di una Prinz.
Stavolta Franceschini torna schleiniano. «Non voglio entrare nelle dinamiche del Pd, per rispetto verso il partito che mi ha eletto, però da osservatore capisco il ragionamento: ritiene che il Pd abbia bisogno di discontinuità, che serva un elettroshock. E ancora una volta ha dimostrato di essere il miglior kingmaker della politica italiana». Kingmaker o burattinaio? «È finita l’epoca dei burattinai. Sono convinto che i presunti burattinai siano così intelligenti da non proporsi come tali. E che i presunti burattini non siano così sciocchi da farsi gestire da qualcun altro. Peraltro Elly Schlein di voti ne ha già presi, sul territorio, e molti. Non è poco, in quest’epoca. E direi che la sua inclinazione non è quella di fare ciò che gli altri immaginano farà. Lo si è già visto per l’Ucraina. Anche gli stereotipi hanno fatto il loro tempo». Se dovesse darle un consiglio? «Legga Mao Tse-Tung, si attrezzi a una lunga marcia. Le finestre temporali dei leader sono sempre più brevi, lo spiego nel libro, il difficile è resistere. La prima fase, un anno, servirà a rinvigorire il partito. Poi ci sarà il problema di rinvigorire le alleanze: come diceva Churchill, l’alternativa ad avere alleati scomodi è non avere alleati». C’è chi le consiglia di spolpare il M5S. «La strategia di spolpare non è mai intelligente. Si può spolpare de facto, che è diverso. Ma spolpare Conte non è uno scherzo». Ce Io dica lei: Conte è un democristiano? «Diciamo che ha un’abilità di navigazione interessante. Non so se gli farà piacere, ma ha qualcosa di andreottiano». Schlein quale Dc potrebbe incarnare? «Potremmo immaginarla una Zaccagnini, senza la sua bonomia. Anche lui prese la Dc in un momento in cui viveva un declino inesorabile e tutto sommato la rilanciò». Matteo Renzi? «Può essere Fanfani: fumantino, resistente, perspicace, capace di vittorie e sconfitte. Carlo Calenda lo assimilo a Filippo Maria Pandolfì, ministro dell’Economia serio, più con propensioni governative che partitiche». Così ha già risposto circa il futuro di Calenda nel Terzo polo. E Giorgia Meloni? «La debbo ancora vedere in azione, è una ragazza in gamba che ha fatto una lunga marcia e che poi ha avuto la fortuna di incrociare il declino di Fini e di Berlusconi. Di fatto è l’erede del Cavaliere». Come ci è riuscita? «In politica l’eredità non si riceve mai: si ruba, si prende. Esistono i delfini, ma il principe non diventa per forza re. Lei non ha avuto bisogno di partecipare alla gara, si è presa lo scettro. Anche la fortuna, dicevo, gioca un ruolo essenziale: a ottobre ha detto “non sono ricattabile”; io ricordo di aver detto “c’è qualcuno in questo Paese che non si fa comprare”. Però l’ho fatto vent’anni fa, Berlusconi era un po’ diverso da oggi, era al massimo del potere». Lo disse anche Fini, che però oggi è fuori dalla politica. «Fini ha pagato un prezzo certamente superiore alle sue responsabilità. È diventato il grande nemico della destra. Ma la vera svolta della destra l’ha fatta lui, da solo, e se Meloni non deve rendere conto a nessuno di tante cose è proprio grazie a questo. Adesso ha responsabilmente anteposto il processo alle sue ambizioni, ma non mi meraviglierei se si presentasse alle Europee nel 2024: prenderebbe un sacco di voti». Meloni è ancora in luna di miele, dopo Cutro? «Fin qui ha avuto tutte le condizioni positive. Ora è in un momento topico: o dimostra di essere la solver dei problemi italiani o la sua occasione sparisce. Diciamo che se il buongiorno si vede dal mattino, c’è più di un problema. Però è presto». Fdl si può trasformare in una nuova Dc? «Paragone ardito. Nel libro parlo della pedagogia del potere: il potere ti cambia. Finché sei all’opposizione dici quello che ti pare, al governo ti devi confrontare con la realtà. Oggi il cambio di passo di Meloni c’è nella politica estera, mentre all’interno vedo che i suoi peggiori nemici sono i suoi alleati e la sua squadra. Il suo problema è che non può recitare un one woman show». Non trova un comprimario, però, tra Piantedosi, Nordio, Lollobrigida… Consigli? «I problemi maggiori vengono dalla sua squadra. Deve spiegare bene ai singoli che fare. Perché sono anche persone di qualità, ma sono “sbaricentrati”». Un giudizio generoso. «Dopo una certa età si è generosi». Meloni e Schlein sono diventate parlamentari a 29 anni. Lei a 27. È il segno che la parabola dell’antipolitica è finita? «È finita l’illusione dell’antipolitica e, per ora, anche la supplenza dei tecnici. L’effetto Schlein-Meloni rende vecchio tutto il panorama, crea problemi a chiunque». Renzi invece si è fregato le mani: dice che per il Terzo polo si aprono praterie. «Mai credere ai politici: quando dicono una cosa è sempre una bugia. Intendiamoci, Renzi è il più bravo di tutti. Ma ha un nemico che rischia sempre di abbatterlo: Renzi. Se riuscisse a rottamare una parte di sé, allora sì che si aprirebbero praterie». A proposito di fortuna: nel 2001 lei doveva fare il ministro degli Esteri, poi finì presidente della Camera. «Mi fregarono i poteri forti, quando c’erano. Facemmo un vertice io, Fini e Berlusconi: io avrei fatto il ministro degli Esteri, lui la Difesa. Dopo tre giorni mi chiama Fini e mi dice: “Tu pensi davvero di avere la Farnesina? Guarda che ha telefonato Gianni Agnelli, ha detto che ci andrà Renato Ruggiero”. Era nel cda della Fiat, l’avvocato spingeva per lui. Come ministro degli Esteri è durato poco, ha fatto un errore mortale: la prima volta che a Bruxelles ha detto a Berlusconi “ti spiego io cosa dire”. Fine». È andata meglio a lei, con la guida di Montecitorio. Ma nessuna legge, misura, provvedimento porta il suo nome. «Ho avuto la fortuna di esser protetto da tante insidie. Ho fatto tantissime cose, come presidente della Camera e non solo. Non ho il problema di avere un provvedimento a mio nome. E poi non credo alla politica che vive di effetti speciali». Le fa impressione il Senato dimezzato? «Quello che mi fa impressione è che il Parlamento sia ormai un passacarte. Non legifera più. La riforma Calderoli prevede addirittura un parere consultivo delle Camere: rischiamo di diventare il Cnel. Lo dico ai tanti di questa maggioranza che vedono con favore il presidenzialismo: guardino come funziona in America, dove i presidenti devono contattare fino all’ultimo parlamentare per far passare un provvedimento. E noi vogliamo fare un presidenzialismo senza Parlamento? È una cosa folle». Lei pensa che si farà davvero? «Constato che l’unico istituto che in Italia funziona bene è quello del capo dello Stato. Domando se abbia senso toglierlo dal ruolo super partes che ha per trasformarlo nell’epicentro delle divisioni politiche. A me pare un errore madornale». Formica dice che, con Schlein, il capo dello Stato perde il «patronàge» sul Pd. Pensa che di qui derivi un elemento del disagio dei popolari? «Se il Pd perdesse la sua vocazione istituzionale perderebbe, agli occhi di tanti, gran parte del suo valore. I sacrifici fatti per rimediare a errori altrui, che lo hanno portato anche al governo, non vanno sottovalutati. Lo rendono un vero partito della nazione». Viva il Pd governista? «Una parte di italiani vota i dem anche per quello. Una parte di giovani, anche quelli che hanno votato per Schlein, pensa che questo sia il problema. Ecco perché è difficile essere leader: non farsi carico degli uni o degli altri significa perdere una fetta importante. Bisogna fare la sintesi, ma è complicata. Soprattutto con un Parlamento in cui il Pd non è decisivo, in cui c’è una maggioranza schiacciante e, diciamolo, coerente su un punto: prende tutto il possibile». Che intende dire? «Mi sembra che l’unica cosa su cui c’è vera sintonia in questa maggioranza siano le nomine, i posti da occupare. Non si fanno sconti, non ci sono gentlemen’s agreement con l’opposizione: hanno una forza nei numeri che fanno valere sempre. Forse la fame atavica di chi è stato all’opposizione giustifica questo comportamento, però non è una scelta lungimirante. Anzi è un grande errore, se ne accorgeranno».
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