Tutti i post della categoria: Riceviamo e pubblichiamo

Manovra correttiva primaverile: dove si può tagliare?

postato il 18 Maggio 2010

Money, album di TiziaKaya“Riceviamo e pubblichiamo”, di Gaspare Compagno
Circa un mese fa si erano diffuse le voci di una manovra correttive, che erano state smentite dal ministro Tremonti, che aveva dichiarato il 7 Aprile che la manovra ci sarebbe stata solo nel 2011 e dal premier Silvio Berlusconi, che ribadì il concetto il 9 Aprile.
Nonostante queste smentite, il 13 Aprile la ipotizzata manovra correttiva prendeva contorni più delineati e le linee direttrici sarebbero state tre: allungare le scadenze del debito pubblico italiano (già ora intorno ai 7 anni), tassazione degli immobili sfitti e di proprietà delle banche (ma senza reintrodurre, almeno ufficialmente, l’ICI), aumento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie, doppia tassazione per le banche.
Anche in questo caso vi furono le prevedibili smentite.
In questi giorni il ministro Tremonti ha, invece, affermato che effettivamente ci sarà una manovra aggiuntiva, rassicurando però sulla tenuta dei conti pubblici e sostenendo che tale manovra sarà di circa 25 miliardi di euro in due anni. [Continua a leggere]

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Partito della Nazione? Facciamoci ascoltare per un cambiamento vero

postato il 13 Maggio 2010

Posta elettronica, immagine di Tim Morgan ‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Germano Milite

Un mese fa scrisse una lettera aperta a Pier Ferdinando Casini, oggi così accoglie le novità:

Qualche “irriducibile” del partito inorridì dandomi del matto o dell’utopista. A distanza di 30 giorni, Casini pare aver ascoltato in grossa parte quel mio spassionato monito con il lancio di questa nuova formazione politica. Ora è il momento di restare uniti e di pretendere un cambiamento vero, veloce, “pulito”, concreto ed efficace della vecchia e morente Udc.

Il partito stava letteralmente affondando e dava a tutti l’impressione di essere abbandonato dai suoi stessi vertici. Io non so quanto Casini faccia sul serio, quanto di vero e sincero ci sia nelle sue parole ed attenderò la reale attuazione dei bei concetti espressi in questi giorni prima di giudicarlo in maniera definitiva. Mi farebbe piacere, comunque, che proprio adesso noi decidessimo di bombardare letteralmente i “capi” per farci sentire, proporre soluzioni, pretendere ascolto e VERITA’.
La politica italiana è giunta ad un capolinea e pare che almeno qualcuno abbia avuto il buon senso di accorgersene. Lo dicevo un mese e fa e lo ripeto adesso: non mi aspetto politici in odore di Santità che siano sul serio altruisti e pronti ad immolarsi per la collettività…mi aspetto politici meno cialtroni e miopi che riescano ad essere positivamente egoisti; capendo cioè che la qualità ripaga e che, investire energie e sinergie su giovani e meno giovani di valore, CONVIENE A TUTTI ED A LORO IN PRIMIS.
Che questa rivoluzione annunciata non resti tale…che quella di Casini sia una presa di coscienza VERA che porterà finalmente a qualcosa di buono. Che si discuta, che ci si veda per parlare.
In caso contrario, lo dico chiaramente, SARO’ IL PRIMO A SCAGLIARMI CONTRO “IL PARTITO DELLA NAZIONE” ed i suoi fondatori…il tempo delle promesse fatte appositamente per non essere mantenute è finito.
L’Italia ha bisogno di NOVITA’, DI CREATIVA’, E DI POSITIVITA’  NON SCIATTAMENTE PROPAGANDISTA…l’Italia ha bisogno di un nuovo esercito di moderati.

IO CI STO MA ALLE CONDIZIONI ESPOSTE…SPERO CHE TUTTI, QUESTA VOLTA, SIANO CONCORDI CON ME.

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Rischiare la vita in stazione per mancanza di soccorsi

postato il 12 Maggio 2010

Punto di fuga, di Leosagnotti“Riceviamo e pubblichiamo”, di Germano Milite
Nella stazione di Milano Centrale, una signora scende in lacrime dal treno Fast 9605 delle ore 7.30 diretto a Napoli centrale. Sono le 7.15 e la donna, piegata in due dal dolore, avverte di essere gestante e fa intuire dunque che si è verificata la rottura delle acque. In pochi secondi viene avvertito il capotreno che allerta tramite radio la polizia. Le autorità, a loro volta, contattano un’ambulanza che però non riesce a prestare soccorso prima di circa 30 minuti. Dopo un quarto d’ora d’attesa, infatti, la signora viene fatta scendere dal treno in partenza ed attende per altri 15 interminabili minuti l’arrivo dei barellieri. [Continua a leggere]

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L’italia, nuova spugna intrisa di petrolio?

postato il 10 Maggio 2010

pozzi per l'estrazione di petrolio vicino Gela, foto di Giusorti“Riceviamo e pubblichiamo”
di Gaspare Compagno
Mentre il mondo in generale e gli USA in particolare sono con il fiato sospeso per il disastro ecologico della marea nera fuoriuscita dalle trivellazioni off shore della BP, in Italia si prosegue come se nulla fosse successo.
Intendiamoci, non intendiamo colpevolizzare l’industria del petrolio, capiamo quanto sia necessaria questa fonte energetica e capiamo quanto sia importante come possibilità lavorative in un momento in cui tutte le aziende italiane sembra che stiano abbandonando l’Italia, però abbiamo dei timori legati all’ambiente, oltre che alla possibilità che le nostre ricchezze vengano depredate senza ricevere nulla in cambio, come ad esempio è successo in Basilicata dove, ai pozzi petroliferi, è seguita una bassa ricaduta in termini occupazionali e di nuove attività di sviluppo. [Continua a leggere]

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Il federalismo fiscale e uno dei suoi strumenti: il costo storico

postato il 3 Maggio 2010

federalismo

‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Gaspare Compagno

Parlare di federalismo in Italia significa parlare di federalismo fiscale, ovvero l’attribuzione di risorse a Regioni ed enti locali che le gestiscono in autonomia, superando il dualismo tra competenze legislative e amministrative (sul territorio) e i trasferimenti finanziari dallo Stato al territorio che ha generato lo schema di ripiano di perdite finanziarie tramite la logica del piè di lista.
Chi volesse studiare questo fenomeno, può studiare il fallimento del sistema finanziario legato al settore sanitario ideato con il decreto legislativo 56/2000: l’impennata della spesa sanitaria ha reso necessario il ricorso a misure di emergenza come i piani di rientro.
E questo ci porta al punto fondamentale: il controllo della spesa che si è  incentrato nell’ambito del costo delle prestazioni di servizio, come quelle sanitarie o come quelle del settore sociale.

Il settore sanitario e dell’assistenza sociale riguardano settori in cui vi è  una forte compenetrazione tra i processi di produzione dei servizi e strumenti di altra natura: organizzazioni, ingegneria dei processi, definizione dei costi e così via.

Questa introduzione è necessaria per farci capire uno dei concetti principali di ogni proposta di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, ovvero la definizione dei costi standard.

Secondo il disegno di legge licenziato l’11 settembre 2008 dal Consiglio dei Ministri, il costo standard è lo strumento cardine su cui poggerà tutto l’impianto federalista, e la sua corretta determinazione influenza le modalità medesime del federalismo. Il costo standard, infatti, è lo strumento che assicura il totale finanziamento (anche attraverso i fondi perequativi) delle prestazioni ritenute essenziali: sanità, assistenza, istruzione, ovvero di quelle voci di spesa connesse a fondamentali diritti civili e sociali,  e per le quali vi deve essere la totale copertura al costo standard, perchè, qualora gli enti territoriali spendessero in misura maggiore rispetto al costo standard, dovrebbero farsi loro carico della spesa eccedente, spostando risorse da altri interventi, senza potere avere altre linee di finanziamento (e quindi facendo venire meno il tradizionale riparto da parte dello stato).

Ma il principio del costo storico è determinabile ed eventualmente già applicato?

Consideriamo l’esempio della sanità.

Intanto osserviamo l’effetto distorsivo creato dai DRG, dai LEA (i livelli essenziali di assistenza sanitaria che il SSN è tenuto a garantire a tutti indipendentemente dai ticket) che sono rimasti lettera morta per la difficoltà di stimare con dettaglio i costi di certe prestazioni (ad esempio le protesi ortopediche), e dai tariffari del servizio sanitario, che dovrebbero essere omogenei per tutte le Regioni secondo la normativa del 1999, ma nella sostanza sono tariffari sui quali è la Regione a decidere.

Come si vede vi è un mancato ricorso al costo standard. Ma questo non dice tutto, perchè se si va a guardare le statistiche di analisi degli scostamenti tra Nord-Centro e Sud in merito alla relazione tra finanziamento e risultato prodotto, si osserva uno scostamento nei valori, generato dalle differenti tipologie gestionali applicate dalle Regioni e dai differenti mix produttivi applicati dalle aziende che costituiscono un impedimento all’introduzione di un costo standard omogeneo a livello nazionale. La soluzione potrebbe essere una fase transitoria in cui i costi standard dovranno essere ponderati territorialmente, ma vi sono molte incognite, soprattutto se consideriamo che il costo standard era già stato previsto nella riforma della contabilità pubblica della metà degli anni novanta operata dall’allora ministro del tesoro Ciampi, ma è rimasto lettera morta, segno delle difficoltà legate al problema delle modalità di utilizzo delle risorse per assicurare un uguale soddisfacimento del fabbisogno.

A questo punto, bisognerebbe scaricare sulla definizione di costo standard l’onere di perseguire una soluzione equilibrata, ma sarebbe comunque insufficiente se non vi fosse poi un accurato monitoraggio della spesa pubblica durante la fase transitoria, che tenga conto di due fattori: il primo che questo monitoraggio è legato alla fase transitoria e serve a passare ai costi standard; il secondo che, appena si conclude la fase transitoria, il monitoraggio sia legato all’esigenza  che tramite il costo standard si possa soddisfare il fabbisogno di quel determinato territorio e che questo avvenga in piena trasparenza per potere sviluppare un vero controllo diffuso da parte di organizzazioni capaci di attuarlo.

Ma il costo standard non ha esaurito la sua importanza, perchè ha conseguenze anche sul modello di federalismo che si vuole ottenere. Il problema dell’attuazione del federalismo in Italia è rappresentato principalmente dalle forti differenziazioni territoriali (forse nessun altro paese della UE ha una simile differenza tra i territori per quanto riguarda la ricchezza prodotta), e questo problema può essere risolto solo tramite la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e il loro finanziamento attraverso costi standard.

E qui sta il cortocircuito logico che è alla base della difficoltà di proporre una riforma federalista e per cui non sono ancora stati proposti i decreti attuativi.

Se entra in vigore un modello federale imperniato sui livelli essenziali delle prestazioni e sulla loro copertura finanziaria tramite costi standard, abbiamo da un lato di fare convergere una maggiore omogeneità di offerta di servizi, ma svuotando di significato il sistema federale: se su sanità, assistenza, istruzione e, in parte meno incisiva, sui trasporti locali, vengono decisi centralmente i livelli minimi di prestazioni e il loro costo, allora viene a cadere il concetto stesso di federalismo inteso come autonomia decisionale, perchè il governo regionale avrebbe ben poca autonomia reale.

E se invece, decidessimo di non avere contrappesi forti e di lasciare massima autonomia decisionale? Avremmo un paese con differenziazioni ancora più  nette, e non si avrebbero parametri di riferimento con cui misurare l’efficacia e l’efficienza degli amministratori locali, venendo a fare cadere quella maggiore responsabilizzazione che si voleva perseguire con il federalismo, e questo perchè il costo standard, per sua stessa natura, si prefigura come un criterio oggettivo di paragone per valutare e controllare i territori e questo diventa importante in funzione delle risorse derivanti dal fondo perequativo. Il mancato rispetto tra costi effettivi e costi standard porta l’ente a due strade per colmare tale gap: o aumenta le tasse, o sposta risorse da un settore all’altro; e qui si innesta il fondo perequativo, in quanto, se lo scarto dovesse perdurare nel tempo o essere troppo grande, le Regioni che alimentano maggiormente il fondo perequativo (che ha funzione di riequilibrio), potrebbero chiedere una limitazione della portata per tutelare le loro risorse e per non pagare i conti degli altri.

E questo pone il quesito che in maniera più o meno nascosta influenza il dibattito parlamentare e politico: è meglio un sistema che cerca la perequazione finanziaria, provando ad appianare le divergenze tra aree ricche e povere, o è meglio un sistema che massimizza l’efficacia e la resa, sebbene concentri questa massima efficacia in alcuni territori?

Questo quesito, cui siamo giunti da premesse logiche e lineari (definizione di fabbisogni standard, finanziamento con costi standard), va ad abbattersi con problemi non logici e non lineari che hanno attinenza non con il piano tecnico, ma con il piano politico.

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Per una scuola migliore, la testimonianza di un’insegnante

postato il 29 Aprile 2010

colori

“Riceviamo e pubblichiamo” di Francesca Levito

In prima linea.

Tornando a lavorare a Palermo dopo 12 anni di assenza, la mia collega, pur avvezza ai problemi delle scuole a rischio, non si aspettava di trovare la situazione lasciatasi alle spalle: la Vucciria si conferma uno dei quartieri di Palermo in cui l’abbandono delle Istituzioni miete davvero troppe vittime.

Nella nostra scuola dal nome carico di speranze, (“Valverde”!!), persino l’uso dell’unico cortile dell’edificio, sarà una conquista. Ma questo non accadrà fino a quando, finalmente, riusciremo a far capire, all’amministrazione comunale, che non è possibile che questo spazio resti sempre aperto per far accedere gli impiegati e gli utenti del vicino ufficio, ai locali contigui alla scuola. Anziché rischiare che un alunno esca in strada o che un estraneo entri in classe, forse sarebbe più opportuno semplicemente utilizzare due cancelli diversi. Ma non deve essere così facile da capire!

E’ vero che, di contro, anche noi insegnanti non capiamo tante cose!

Ad esempio perché con uno stipendio, onorevolissimo di questi tempi, ma che sicuramente non consente lussi, dobbiamo pagare il materiale che serve agli alunni ed a noi, per svolgere le attività (fogli per fotocopie, quadernoni e vari altri materiali di cartoleria e persino l’affitto di un campo di calcetto per le partite del mini-torneo comunale). E’ bene chiarire che non siamo obbligati da nessuno ed in nessun modo. Non tutti infatti si comportano così. Ma forse io ed il mio gruppo, apparteniamo a quella specie di insegnanti che crede ancora che, come la famiglia, la scuola sia innanzitutto un valore ed un sostegno indispensabile, e che tutti debbano avere la possibilità di avvalersene. Il nostro stile di lavoro è quello di chi, pur essendo orgoglioso di essere maestro, non si esime dall’essere anche altro per quei bambini che, privi del sostegno delle famiglie, verrebbero esclusi (quando non si auto escludono!) dalle attività che più possono servire a crescere in modo responsabile. Così si aderisce al dato progetto anche se questo significa che noi insegnanti rimarremo a scuola oltre il nostro orario di lavoro, andremo a prendere gli alunni a casa perché non manchino alle attività e li riaccompagneremo a casa al termine delle stesse, compreremo loro la merenda o il necessario per il pranzo quando non li porteranno da casa…

Potrete credere che si tratti di scarsa modestia ma consiglieremmo a tanti di provare a vivere ed a lavorare in certi contesti, sperimentando la gioia di sentire i propri alunni motivati, competenti, solidali, ma anche acquisendo più forza per chiedere che questi bambini abbiano davvero gli stessi diritti degli altri.

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McDonald’s: alfiere dell’italianità con il McItaly?

postato il 27 Aprile 2010

mcItaly “Riceviamo e pubblichiamo” di  Gaspare Compagno

Per chi avversa il mondo del fast food, per chi avversa il mondo delle multinazionali, il lancio avvenuto alcune settimane fa di un nuovo panino della catena McDonald’s, sembrava una gran vittoria: il nuovo panino era il McItaly, lanciato come il panino che rilanciava il Made in Italy, con prodotti esclusivamente italiani.
Lo stesso onorevole Zaia, era contento, in quanto si ascriveva il merito di questa idea, che, stando a sentire lui ha dato sbocco a tanti contadini e allevatori. E’ davvero così?

Indubbiamente i prodotti sono italiani: carne 100% italiana, olio extravergine di oliva siciliano, Asiago Dop, pancetta della Val Venosta, bresaola della Valtellina IGP, cipolle di Tropea, grano saraceno, e carciofi romani.

Indubbiamente i dati di vendita sembrerebbero confortanti e addirittura si parla di venderlo in Francia e in Inghilterra.
Sembrerebbe un grande trionfo della gastronomia italiana.
Ancora di più, sembrerebbe un trionfo per i piccoli coltivatori e allevatori, quelli che non sanno mai se arriveranno alla fine dell’anno a coprire le spese.
E invece no.
Iniziamo dalle reazioni all’estero: il Guardian parla addirittura di tradimento della tradizione gastronomica italiana.
Ovviamente Zaia, accusa il Guardian di sinistrosità.

Non giudico gli orientamenti del Guardian però qualcosa di vero c’è, infatti Altroconsumo arriva addirittura a dire che è meglio il panino americano Big Mac, che non il Mc Italy, perché troppo calorico e contiene troppo sale che benissimo non fa, almeno a sentire i medici.

Ma Zaia dice che i coltivatori e gli allevatori ne traggono beneficio. Anzi, afferma che si parla di potenzialmente 1000 tonnellate di prodotto e se si arriva a tale livello, si parlerebbe di 3,5 milioni di panini venduti e questo farebbe vendere il panino in Francia e Inghilterra.
Stupendo, vero? Insomma tutti i piccoli coltivatori e allevatori italiani trarranno beneficio ed esportiamo il gusto italiano. Peccato che non sia così.

Intanto sfatiamo un mito: non è Zaia ha costretto la Mc Donald’s ad usare prodotti italiani, perché la Mc Donald’s ha sempre usato prodotti italiani e lo dicono gli americani stessi, citando anche i loro fornitori: per l’insalata è la Eisberg Italia, e per la carne è la Cremonini (tenete a mente questo nome). Un attimo. Ma queste aziende producono in Italia, ma sono multinazionali. E i piccoli allevatori? I piccoli contadini? Spariti. Come al solito, questo governo dice di difendere i piccoli, ma alla fine favorisce solo i grandi. E qui sfatiamo il secondo mito.

I prodotti italiani sono usati, ma per avere certi prezzi, i prodotti più costosi (tipo la bresaola) devono essere ridotti al minimo, come ad esempio la bresaola della valtellina inserita nei menu McDonald’s con il marchio IGP: innanzitutto analizziamo il frutto dell’unione tra il Consorzio di tutela della Bresaola della Valtellina e la McDonald’s: si tratta di un’insalata (venduta al prezzo di 4,20 euro) con scaglie di parmigiano, crostini e, appunto, bresaola, presente nella modica quantità di 30 grammi.

Ma non è tutto qui. Sapete chi fornisce questo pregiato salume orgoglio della Valtellina?
L’azienda Montana Alimentari SPA del gruppo Cremonini (toh, rieccoli, vi avevo avvertito di tenerli a mente), già fornitore della carne. Per inciso, nessuno dica che la Cremonini è un piccolo allevatore: fatturano 2,3 miliardi di euro l’anno. Non solo, ma sempre il gruppo Cremonini fornisce i vini che compaiono sugli scaffali dell’IKEA.

Per altro, Zaia ha inaugurato il nuovo stabilimento Cremonini in Russia. Perché questa simbiosi con l’azienda modenese? Cito testualmente: “il futuro è puntare sui generi alimentari esportabili sui mercati internazionali”. Quindi tutti i prodotti, giudicati da Zaia, non esportabili, sono da chiudere. Certo ci vuole una visione del futuro e di come andranno i prodotti in futuro.
E lui di futuro se ne intende visto che già a luglio 2009 pianificava la sua campagna elettorale con i soldi dei contribuenti italiani, infatti a febbraio esce il numero di Welfare, editore Federsanità, che dedica la copertina e ben 11 pagine speciali al ministro (che col welfare  non c’entra nulla) per un totale di 250.000 copie gratuite delle quali 18.000 distribuite in Veneto al costo di 450.000 euro pagati da Buonitalia s.p.a., diretta emanazione del dicastero di Zaia.

Questi 450.000 euro sono la prima tranche del finanziamento dell’Unione Europea per la promozione dell’agroalimentare italiano nel mondo. Il mondo, non il Veneto.
Ma questa notizia è stata smentita dalla segreteria di Zaia che ha testualmente affermato “Cadiamo dalle nuvole, non sapevamo nulla della pubblicazione, per la quale il dicastero non ha messo un euro”.

Strano, perché invece il direttore di Federsanità, Enzo Chilelli, dati alla mano smentisce Zaia, dicendo “Il numero speciale è stato mandato in stampa a luglio, ovviamente con l’approvazione sia di Buonitalia Spa, sia dell’ufficio di comunicazione del ministero rispetto ai contenuti. Tant’è che le foto di Zaia sono quelle ufficiali forniteci dal ministero. Il costo? In tutto 450 mila euro: 300 mila per la produzione e 150 mila per la distribuzione.”

A chi credere? A Enzo Chilelli o a Zaia, personaggio quanto meno pittoresco, chiamato dai giornali locali “Er Pomata” quando non era un politico di successo e faceva il PR nelle discoteche, o, in qualità di presidente della provincia di Treviso, comprava 6 asini bruca erba, perché “costano meno di 6 falciatrici”?

A questo punto, tornando al famigerato McItaly, possiamo dire che, lungi da noi condannare il panino in quanto tale, vorremmo sfatare il mito costruito da Zaia, ovvero che è un panino che salva i piccoli agricoltori, e che promuove il Made in Italy all’estero.
Resta un’abile operazione di marketing di Zaia, e un panino normalissimo, che può piacere o meno.
Non certo il salvatore dell’enogastronomia tricolore.

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Il genocidio degli Armeni

postato il 25 Aprile 2010

Envelope, di Tim Morgan “Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Leggo online da Blitz Quotidiano una notizia agghiacciante e mi auguro che non sia vera. In un programma d’informazione turco si era infatti annoverata l’Italia tra le nazioni che riconoscono il genocidio armeno, ma l’ambasciatore italiano ad Ankara, Carlo Marsili, avrebbe precisato , per i favori del governo turco che ha sempre negato la veridicità della storia, che in realtà quell’informazione non fosse esatta: l’Italia non riconosce il genocidio degli armeni.  Eppure il governo italiano approvò a larga maggioranza nel 2000 la risoluzione Pagliarini di riconoscimento e condanna del genocidio degli armeni. Secondo l’ambasciatore Marsili questa sarebbe solo un’interpretazione giacché la risoluzione si impegna solamente ad «adoperarsi per il completo superamento di ogni contrapposizione tra popoli e minoranze diverse nell’area al fine di creare le condizioni, nel rispetto dell’integrità territoriale dei due Stati (Turchia e Armenia), per la pacifica convivenza e la corretta tutela dei diritti umani nella prospettiva di una più rapida integrazione della Turchia e dell’intera regione nell’Unione europea» . Non ho tuttavia trovato conferme su altre testate o blog di questa notizia, reputo potrebbe trattarsi anche solo di un pettegolezzo o un fraintendimento, ma qualora fosse vero sarebbe davvero grave, peraltro proprio nel 95° anniversario del genocidio armeno. Ma facciamo un po’ di luce sui fatti di questo luttuoso evento che si cerca di cancellare dalla storia.

La Turchia infatti non ha mai riconosciuto quello che è in realtà il primo genocidio del Novecento, il  secolo breve e buio in cui, come afferma il romanziere russo Vassilij Grossman, sembra sia conflagrato in un solo istante tutta la violenza che si era conservata nel corso dei secoli come l’entropia. Siamo nel 1915, l’Impero ottomano è un cadavere che cammina, si è ridotto a un patchwok  di greci, bosniaci, turchi, armeni, semiti che non trovano fra loro alcun elemento di condivisione. E’ una nazione che si regge unicamente per imposizione dall’alto e che tende a reprimere ogni tentativo di riforma o pretesa di maggiore autonomia da parte delle minoranze. L’impero ottomano crollerà definitivamente poco dopo, nel 1919, dopo una crisi inesorabile iniziata già dopo Lepanto e l’assedio di Vienna, apice e declino. Nel 1908 il movimento panturchista e ultranazionalista dei “Giovani Turchi” aveva deposto il Sultano; furono loro i principali carnefici del popolo armeno. Gli armeni erano sempre stati considerati sudditi di serie B, erano cristiani, non si vergognavano di portare la croce in petto e di officiare i loro riti anche in una nazione che, prima dell’arrivo del laico e liberale Ataturk, poteva essere considerata a pieno diritto una teocrazia islamica.

Secondo i dati della Oxford University Press, nel  solo Novecento sono stati uccisi 45 milioni di cristiani. Le prime persecuzioni  di armeni possono rintracciarsi già negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, in particolare il pogrom del 1885 in cui 50.000 armeni bruciarono nei loro villaggi. Ma è nel 1915 che la persecuzione deflagra in genocidio, mentre l’Impero ottomano, impegnato nella prima guerra mondiale e attivo sul fronte orientale, teme rivolte interne e non accetta le legittime richieste riformiste di suddito cristiano di serie B. Nella notte del 24 aprile 1915 intellettuali, artisti, amministratori locali, banchieri, sacerdoti e persone comuni  armene furono prelevati dalle loro case, deportati, infine massacrati. Si parla di 1.5-2 milioni di morti. Questa è una tragedia dimenticata, oltraggiata dalla Turchia che la considera una montatura e un’accusa alla sua sovranità, ignorata dai paesi europei che non vogliono pestare i piedi e gli interessi commerciali che intrattengono con il gigante dell’Asia Minore.  Oggi nessuno se ne è ricordato. Noi sì, dobbiamo esserne fieri, e consiglio la lettura, per chi volesse approfondire questo mio breve spunto del romanzo “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan e l’ottimo articolo del Sussidiario.Net di Pippo Emmolo

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25 Aprile: Festa della Liberazione

postato il 24 Aprile 2010

25aprile ‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Marta Romano

Eccoci giunti alla vigilia del 25 Aprile 2010, 65° anniversario della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista . Una festa che, anche a distanza di molti anni, divide ancora l’Italia e gli italiani.

Sinceramente pensavo che il nostro Paese fosse già talmente diviso al proprio interno che quest’anno l’anniversario di quest’importante avvenimento sarebbe stato meno influente. E invece no.

Un’Italia che piange e che ricorda le vittime di ambedue le parti non riesce a cancellare le urla e le ripetute polemiche che questa ricorrenza evoca.

Eppure, forse, c’era qualche italiano che, come me, si era lasciato illudere dalla speranza di vedere un Paese diverso, unito sotto un unico patrimonio di cultura, tradizioni e storia. Alla vigilia di quest’importante ricorrenza, mi accorgo che era un’utopia. E’ ancora un sogno pensare che tutto il Paese possa ricordare e piangere i caduti di quella che può essere definita una vera e propria guerra civile per la Libertà.

Una Libertà raggiunta attraverso dolore e sofferenza, ma con un denominatore comune: l’UNITA’.

Unità e compattezza che mancano oggi, assieme alla volontà di dialogo e discussione per il raggiungimento del tanto agognato bene comune.

Ecco perché, a distanza di 65 anni da quel famoso 25 Aprile, non posso che essere preoccupata per il mio Paese. Una nazione che preferisce l’astensione alla libertà di voto, dove il dissenso dilaga e assumono sempre più importanza partiti populisti ed estremisti. Il tutto mentre cresce la disoccupazione, specialmente giovanile.

E allora, alla vigilia di quest’importante giorno, esprimo un desiderio.

Vorrei un’Italia diversa, più democratica e più serena, dove ci sia un dialogo libero e costruttivo.

Vorrei un’Italia dove lavoro e sviluppo non fossero soltanto i sogni di una giovane ragazza, ma realtà.

Ma, più di tutto, il mio desiderio è quello di vedere, un giorno, l’Italia ricucita dai troppi strappi che ne hanno lacerato l’anima. Soltanto nell’unità può esserci un futuro.

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Un’azienda storica si trasferisce all’estero: la Bialetti abbandona Omegna

postato il 19 Aprile 2010

Logo-Bialetti

‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Gaspare Compagno

In questi giorni, infatti, la Bialetti ha annunciato la chiusura del suo storico impianto produttivo ad Omegna, licenziando 120 persone e riaprendo lo stabilimento all’estero.

In Italia manterrà solo la parte di design, di marketing, e di ricerca. Servizi a valore aggiunto ovviamente, ma che danno lavoro a poche persone e che hanno un indotto ridotto rispetto all’impianto produttivo vero e proprio.

Ne ho parlato oggi con una mia amica, Chiara Corsi, che è originaria della zona e abita a Verbania Prò, vicinissima ad Omegna.

Testualmente mi ha detto (in grassetto la sua dichiarazione): “E’ una cosa enorme. Mi ci sento coinvolta perché gran parte della gente che conosco a breve potrebbe perdere il posto di lavoro e qui non è facile trovarne altri. E’ già successo con Verbano Ondulati che aveva una succursale qui e a causa della crisi l’ha chiusa per tornare a Maranello. O con la Tuborg, dopo lo scandalo delle fatturazioni false. La Bialetti e l’Acetati sono sempre stati una certezza. Se entravi in Acetati eri a posto, mio nonno ci lavorava. Nessuno avrebbe mai creduto possibile potesse chiudere… eppure…”

Eppure Chiara?

“Comunque per la Bialetti questo ti posso dire: La sede di Omegna è la sede storica. Omegna è sempre stata Bialetti, Lagostina, Alessi e rubinetti. Tutti marchi italiani molto conosciuti, apprezzati nel mondo e motivo d’orgoglio per chi ad Omegna e dintorni abita e vive. D’altronde come potevano non esserlo considerato che in tanti omegnesi ci lavoravano da un vita. Con l’acciaio ci hanno campato tante famiglie per anni. Le fabbriche sono sempre state l’unica vera alternativa al turismo, che è una voce importante della zona, ma non sufficientemente stimolata. Da considerare anche che intorno a queste fabbriche si sviluppa altro lavoro con la produzione di componenti. Se una fabbrica chiude, in crisi ci va anche l’indotto, Perché anche se hanno promesso di affidare la produzione di componenti alle piccole realtà della zona su cui hanno sempre fatto affidamento pur di mantenere il “made in Italy” almeno per il 50%, la realtà è che producendo all’estero non ci vorrà molto perché anche quest’ultimo “contentino” venga meno a chi ha contribuito a creare questa tradizione. La verità è che nessuno ha dato certezze, ma solo promesse che, per chi qui ci vive, sono a breve termine e che lasciano ben poche speranze. Il problema vero è la tassazione. Se qui produrre una caffettiera con l’omino costa x, altrove costa almeno la metà in meno e chissenefrega se la qualità non è la stessa, sono i guadagni che contano (e una cittadina in ginocchio è solo un effetto collaterale). Il problema è che oggi è la Bialetti, ma prima ci sono state tante altre piccole e grandi realtà a lanciare allarmi preoccupanti. Omegna è anche un popolo di “rubinettai” molto conosciuto con le sue fabbrichette e una sua eccellenza specifica. Ma se produci un bel rubinetto, elegante, innovativo, unico e subito dopo te lo ritrovi in vendita alla metà del prezzo identico, ma prodotto con materiali scadenti e all’estero che fai? il tuo rubinetto, seppur migliore qualitativamente, ti rimane sul groppone. La verità è che non c’è chi vigila, chi lascia che la libera concorrenza non sia libera a parità di condizioni, ma sleale, chi non difende il marchio italiano come dovrebbe. E Omegna ne è l’esempio.”

 

Questa è una testimonianza di chi vive quella realtà economica, e sopratutto ci fa capire che una azienda  è anche storia di un territorio, è vita, è futuro della gente.

Concretamente cosa si può fare per le aziende che in numero maggiore chiudono gli impianti e si trasferiscono all’estero? Invocare il protezionismo non è la soluzione: ormai l’Italia si trova in uno scenario mondiale, le aziende che non riescono a stare al passo dei concorrenti, sono destinate a chiudere e in questo caso il danno è ancora maggiore.

Possiamo ritenere che una soluzione legata a sovvenzioni sia solo un palliativo e non sia una strategia vincente nel lungo periodo, perché vanno bene nel breve periodo e per tamponare una problema contingente e momentaneo, ma non danno soluzioni di lungo periodo. Non ci basta riuscire a difendere il lavoro per uno o due anni, sperando poi in “miracolo italiano”.

Qui parliamo di colmare dei deficit strutturali.

Oltre a quanto suggerito dalla mia amica, partirei da una breve riflessione. Tutti gli istituti, i ministeri, gli operatori concordano che in Italia, oltre al costo del lavoro, incidono altri costi: infrastrutture insufficienti, gestite male e costose; costi dell’energia alti; trasporti lacunosi, incentrati più sul trasporto su strada che su quello ferroviario, con la conseguenza che il prezzo della benzina incide fortemente.

Cosa si può fare?

Oltre a sbloccare il prima possibile i fondi statali per le infrastrutture, considerando che l’Italia non ha una grande disponibilità finanziaria a causa del suo debito pubblico, direi che la soluzione è il project financing e una revisione delle tariffe della benzina, bloccandole per un certo periodo di tempo.

Il project financing invece, servirebbe per le infrastrutture: i privati le creano e le gestiscono per un certo periodo di tempo, facendo pagare ai cittadini un ticket per l’uso delle ifnrastrutture. Ovviamente per evitare una eccessiva esosità, si potrebbe stabilire che il tichet abbia un tetto minimo e un tetto massimo, collegandolo all’andamento dell’inflazione o ad altre grandezze economiche (costi dei materiali ad esempio) sulla falsariga dei project financing americani.

Sono poche idee, ma su cui si può iniziare a discutere per dare una risposta concreta ai lavoratori della Bialetti e di tante altre realtà economiche.

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