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Tornano le tasse: l’IRPEF sulla casa e via le deduzioni per i carichi fiscali

postato il 20 Luglio 2011

La notizia è di quelle che lasciano basiti: pare che torni la tassazione sulla prima casa, solo che invece che pagare l’ICI adesso la inseriremo nell’IRPEF, ovvero la dichiarazione dei redditi, mentre le riduzioni per carichi familiari verranno tagliate.

Certo ora voglio vedere, se la notizia è confermata, come il governo giustificherà una simile mossa dopo che per anni aveva strombazzato “urbi et orbi” che non metteva le mani nelle tasche dei cittadini, e che anzi aveva tolto l’ICI sulla prima casa. Ricordate? Era uno dei punti fondamentali del programma elettorale del 2008. Purtroppo per Berlusconi, noi abbiamo una memoria di ferro e cosa ancora peggiore, sappiamo usare la calcolatrice, per vedere dove, come e quanto ci costano le “idee” di questo governo.

Andiamo alla norma e facciamo un paio di conti. Cosa dice la legge? Sostanzialmente il maxiemendamento introdotto in sede di conversione del dl 98/2011 (ovvero la finanziaria approvata la scorsa settimana) prevede una riduzione “lineare” del 5 per cento nel 2013 e del 20 per cento dal 2014 dei regimi di esenzione, esclusioni e agevolazioni fiscali rilevati dalla commissione sulle “tax expenditures”. In soldoni, il taglio “lineare” ripristina la tassazione ai fini Irpef della prima casa (abolita nel 2000 dal governo Amato).

Una bella botta, vero? Attualmente, in base all’art.10 comma3 bis tuir, vi è la deduzione integrale della rendita catastale dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e delle relative pertinenze. In pratica, con la legislazione attuale la rendita catastale della prima casa non compare nell’IRPEF, mentre con le nuove norme, la riduzione “lineare” della deduzione per l’abitazione principale del 5% nel 2013 e del 20% dal 2014, è prevista la tassazione dell’unità abitativa su una base imponibile pari al venti per cento della rendita catastale.

In pratica si dovrà mettere nella dichiarazione dei redditi il 20% della rendita catastale della prima casa. Ma cosa è la rendita catastale? Con tale termine si intende la rendita ipotetica di un immobile che si ottiene moltiplicando le sue grandezze fisiche (numero di vani, volumetria, estensione) e una tariffa (tariffa d’estimo) che si determina in base al comune, alla zona dove sorge l’immobile e alla destinazione d’uso dell’immobile medesimo. Essa viene usata come valore di riferimento per le successioni, donazioni e appunto per l’IRPEF; solo che fino ad oggi la prima casa non compariva nella dichiarazione dei redditi, da domani si.

Ovviamente questo riguarderà anche le deduzioni che attualmente vigono sui mutui fatti per l’acquisto di una casa: nello specifico si considerano in calo sia i benefici per la deduzione della prima casa sia quella relativa agli interessi del mutuo; nel primo caso si registra una diminuzione da 126,8 euro a 100 euro nel 2014, mentre per gli interessi si passerebbe dai 328 euro all’anno attuali a 264 euro.

Questa norma, va ad aggiungersi ad un’altra norma ancora più ingiusta, ovvero il taglio relativo alle detrazioni per carichi di famiglia. Attualmente la legislazione prevede che le detrazioni relative al coniuge e figli a carico sono tanto maggiori quanto più basso è il reddito del contribuente. Ovviamente, se il taglio della riduzione è uguale per tutti, chi ne soffre di più è la famiglia con meno soldi.

Nel campo delle deduzioni familiari, è ragguardevole il dato in base al quale emerge che 11,8 milioni di italiani ne sono beneficiari e in media queste raggiungono gli 829 euro, ma con il taglio del 20% il lavoratore con figli e coniuge a carico avrà una deduzione di circa 665 euro.

Se sommiamo i provvedimenti sulla casa e la riduzione delle detrazioni per i familiari a carico una famiglia media si troverà a pagare circa 1000 euro in più. Una bella batosta decisa da chi afferma di non mettere nuove tasse…. Si e magari Babbo Natale esiste…

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Basilicata: la regione più povera d’Italia

postato il 16 Luglio 2011

L’ISTAT allarma l’Italia: nel 2010 risulta povera o quasi povera circa una famiglia su cinque. Nel 2010 l’incidenza di povertà assoluta e relativa ha toccato quote altissime. Il fenomeno, come purtroppo prevedibile, è particolarmente evidente neMezzogiorno, dove é povera quasi la metà (il 47,3%) delle famiglie con tre o più figli minori e, tra le regioni più povere d’Italia, la Basilicata si aggiudica questo triste primato: è la regione dove la povertà relativa ha l’incidenza maggiore (28,3 %), seguita da Sicilia (27 %) e Calabria (26 %) .

A quanto pare, in Basilicata non va proprio tutto così bene come sembra. I problemi sono molti e hanno radici ben profonde: sappiamo quanti giovani abbandonano la Basilicata (in gran parte laureati) e sappiamo per quale motivo: la mancanza di lavoro.

Eppure, la nostra Terra non è certamente povera di risorse, anzi! Abbiamo risorse energetiche (il petrolio), ambientali (l’acqua) e culturali (Melfi, Venosa, Matera..). Terra ricca, patria di gente una volta fiera e combattiva, costretta ora a vivere dell’elemosina dei  petrolieri che abusano delle nostre ricchezze e dei politici che, abbindolando la popolazione lucana, hanno costruito un impero di clientelismo di estensione incalcolabile.

Siamo schiavi di un sistema che abbiamo creato noi stessi, noi che abbiamo riposto la nostra fiducia in persone incapaci, inadeguate e immeritevoli di ricoprire cariche importanti. La mala-politica ha distrutto tutto, anche la nostra voglia di ribellarci. Siamo abituati a tutto e, ormai, ogni bruttura sembra scivolarci addosso, senza provocare reazione.

Siamo poveri, nelle tasche e nello spirito. Ci hanno tolto le forze e i mezzi per rialzarci, hanno fatto scappare i ragazzi: figli, fratelli, sorelle, cugini. Sono andati via, hanno offerto la loro intelligenza a chi ha saputo sfruttare le doti dei giovani per il bene collettivo.

Io, però, spero ancora. Spero che un giorno, i lucani possano svegliarsi da questo torpore.

Purtroppo non c’è più molto tempo per tergiversare: ognuno deve metterci la propria faccia, il proprio impegno: ragazzi,  anziani, padri, madri. Tutti. Soltanto se non permetteremo di toglierci anche questo briciolo di speranza che ci è rimasto, qualcosa forse potrà cambiare.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

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Ministeri alla Villa Reale di Monza, il federalismo che costa di più

postato il 15 Luglio 2011

Sono cominciati da qualche giorno i lavori alla Villa Reale di Monza per insediare alcuni uffici periferici dei Ministeri della Repubblica Italiana con a capo i leghisti Calderoli e Bossi.

Mentre il Senatur mostrava il dito medio al tricolore alla festa padana di Besozzo, Calderoli annunciava: “Il 23 luglio alle 11.30 apriremo il mio ministero, quello di Bossi e di Tremonti a Monza, che piaccia o no a Roma. Vi aspettiamo tutti”. E non importa se la maggior parte degli spazi della Villa sono in condizioni precari, non importa se Comune e Regione da tempo si sono impegnati per il restauro del complesso nonostante le ristrettezze finanziarie del momento, a nulla serve che Formigoni, con un bando da 20 milioni di euro per il restauro, abbia già detto che a Monza non c’è spazio per questo tipo di operazioni, il “trasloco padano” s’ha da fare. È semplicemente vergognoso che, mentre le borse toccano il fondo, mentre ci si accinge ad approvare una manovra di lacrime e sangue, il sanguisuga Calderoli utilizzi denaro pubblico per concentrare alcuni uffici periferici facendo arrivare la mobilia da Catania, a 1.300 km di distanza da Monza, schiaffeggiando ulteriormente i brianzoli, maestri del mobile, senza aver nessuno rispetto per loro e per la Villa stessa.

La Villa è un complesso di enorme valore costruita in meno di tre anni dall’architetto Piermarini che ha visto al suo interno teste coronate e che è tutt’ora sede di vari eventi culturali. L’arrivo degli uffici ministeriali e dei suoi inquilini costringerà, purtroppo, a rivedere il progetto del Museo della Villa: la Soprintendenza alle Belle Arti aveva già previsto l’ingresso dei visitatori presso il Cortile della Cavallerizza ma ad Umberto Bossi poco importa, bisognava farlo. Logico pensare che una mossa del genere è stata fatta solo ed esclusivamente per gettare fumo negli occhi a quegli elettori, ultimamente molti, che non vedono più nelle mosse leghiste i propri ideali. Questi personaggi che in settimana giacciono serafici a “Roma poltrona” e il sabato e la domenica presenziano alle feste della Lega offendendo la bandiera e il popolo italiano.

I giovani dell’UDC non ci stanno ed è per questo che siamo pronti a raccogliere le firme in tutta la Lombardia contro questo superfluo trasferimento e spreco di denaro pubblico. Confido nel popolo italiano e sono sicuro che in questo momento di sacrifici ci sia in Brianza, al Nord e in tutta Italia una sola voce che si levi a denunciare questa vergogna affinché vengano ritirati i decreti che permettono l’apertura degli uffici nella Villa Reale di Monza e faccio un appello al Sindaco Mariani e gli chiedo di tornare in sé, di abbandonare l’atteggiamento servile e di non appoggiare questo scempio che si viene a creare in un gioiello architettonico di cui andare orgogliosi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Michele Trabacchino

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Chi vince e chi perde in questi giorni convulsi di Borsa

postato il 12 Luglio 2011

In questi giorni l’Italia rischia di dover dichiarare fallimento (default), a causa di un sentimento di sfiducia verso la tenuta dei nostri conti pubblici. Ma in caso di default, chi paga? Sicuramente lo Stato italiano e i suoi cittadini: aumentare lo spread, ovvero la differenza con i Bund tedeschi, significa che l’Italia paga più interessi sul debito pubblico e quindi lo Stato ha bisogno di aumentare le entrate o tagliare le spese. Chiaro che aumentare le entrate o tagliare le spese, significa colpire cittadini e imprese.

E se andassimo in default? Basta vedere la Grecia: stretta molto dura su pensioni e stipendi statali, tagli selvaggi nei servizi, solo che il debito pubblico italiano è molto più grande. Per intenderci, pagare 1% in più o in meno sul debito pubblico italiano significa pagare circa 18 miliardi di euro (calcolando l’1% su tutto il debito pubblico italiano, ovviamente sto semplificando). Se consideriamo che nei prossimi 5 anni, bisogna rinnovare almeno 900 miliardi di euro di debito pubblico, ecco che noi parliamo, con un differenziale del 3%, di circa 27 miliardi di euro in più o in meno da pagare rispetto ai titoli di stato tedeschi e rispetto ai tassi di interesse della BCE. Sono soldi che paghiamo noi tutti e quindi noi perdiamo.

E chi ha vinto in questi giorni?

Dire che qualcuno ha vinto è ovviamente una esagerazione, ma serve a rendere l’idea, e questa persona è il ministro Tremonti. Appena sono comparse delle intercettazioni e l’ipotesi che Tremonti potesse seguire la stessa strada di Scajola (che si dovette dimettere), ecco che è iniziata la crisi. Le date coincidono. Perché?

In fondo nei giorni e nelle settimane precedenti erano spuntate intercettazioni e vi erano le udienze a carico di Berlusconi, ma non avevano assolutamente turbato i mercati. Neanche i problemi con la Lega avevano scosso i mercati. La risposta è semplice: i mercati percepiscono come garante della tenuta dei conti il ministro Tremonti, senza di lui, per i mercati, la tenuta non sarebbe più garantita perché Bossi e Berlusconi inizierebbero ad elargire solo per recuperare un minimo di consenso. Basti pensare alla vicenda delle quote latte che si trascina da anni: paghiamo una multa poco superiore al miliardo di euro solo perché pochissimi allevatori hanno sforato le quote, non pagano le multe e non si rimettono in riga, perché sono elettorato leghista e sono tutelati dalla lega.

Alcuni giorni fa si vociferava che vi fosse la rottura tra Tremonti e Berlusconi, ebbene, si è capito che Berlusconi è, per i mercati internazionali, assolutamente ininfluente, non conta nulla. Nella scena politica del centrodestra la parte del leone -dell’unico inamovibile- la recita Tremonti. Tutti gli altri, Berlusconi e Bossi compresi, sono sostituibili.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Riceviamo e pubblichiamo, l’economia non era in ripresa?

postato il 12 Luglio 2011

Lo sò che non è il momento per fare polemiche sterili, ma la situazione non era sotto controllo? L’economia non era in ripresa ?
Non era vero che l’Italia non correva nessun rischio di finire come la Grecia? Tremonti non era l’orco che non voleva allentare i cordoni della borsa? E ora invece? Scopriamo di essere anche noi nei guai e che finora il Governo ci ha raccontato solo balle per far credere che stava facendo bene! Ora, come al solito siamo noi a dover avere il senso di responsabilità e dello Stato. Non sarebbe più responsabile che il capo del governo la smetta di accanirsi contro il Paese e contro tutti? Certo che di occasioni per mostrare un briciolo di responsabilità ne ha avute molte, tutte sprecate ovviamente. Se come al solito la croce ce la dobbiamo addossare noi, Amen, ma almeno facciamolo pesare politicamente.

Riceviamo e pubblichiamo” di Francesco Lauria

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I fondi sequestrati alla mafia vadano allo sviluppo territoriale

postato il 10 Luglio 2011

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nella sua ultima intervista, rilasciata nell’agosto 1982 a Giorgio Bocca per la Repubblica, sottolineava che “la mafia non è soltanto una questione criminale fine a se stessa, ma anche economica e sociale”, così dicendo pose le premesse di una lotta alla mafia che colpisse anche gli interessi economici e le ricchezze accumulate con i traffici illegali. Da allora tanto si è fatto e grazie ad una legislazione ad hoc e al lavoro congiunto della magistratura e delle forze dell’ordine si è potuto colpire ripetutamente gli interessi economici mafiosi e, soprattutto, è iniziata una preziosa opera di confisca e reimpiego di beni e di denaro sottratti alla criminalità. Le somme di denaro e dei proventi derivanti dai beni confiscati attualmente affluiscono al Fondo Unico Giustizia, che va distinto dal Fondo Unico di Amministrazione, ed è disciplinato dall’art.61, commi 23 e 24, del D.L. 25.6.2008 n. 112 (convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 6 agosto 2008 n. 133) e dall’art. 2 del D.L. 16 settembre 2008 n. 143 (convertito don modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181). Nel Fondo Unico Giustizia arrivano le somme sequestrate nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione (ordinarie o antimafia) o di irrogazione di sanzioni amministrative ed i proventi derivanti dai beni confiscati nell’ambito di procedimenti penali, amministrativi o per l’applicazione di misure di prevenzione.

L’art. 2 del D.L. 16 settembre 2008 n. 143, convertito in legge con modifiche il 5.11.2008, ha ampliato il contenuto del Fondo in quanto ha stabilito che in esso confluiscono anche:

  • le somme di denaro ovvero i proventi relativi a titoli al portatore, a quelli emessi o garantiti dallo Stato anche se non al portatore, ai valori di bollo, ai crediti pecuniari, ai conti correnti, ai conti di deposito titoli, ai libretti di deposito e ad ogni altra attività finanziaria a contenuto monetario o patrimoniale oggetto di provvedimento di sequestro nell’ambito dei procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione o di irrogazione di sanzioni amministrative;
  • le somme di denaro ovvero i proventi depositati presso Poste Italiane S.p.A., banche e altri operatori finanziari, in relazione a procedimenti civili di cognizione, esecutivi o speciali, non riscossi o non reclamati dagli aventi diritto entro cinque anni dalla data in cui il procedimento si è estinto o è stato comunque definito o è divenuta definitiva l’ordinanza di assegnazione, di distribuzione o di approvazione del progetto di distribuzione ovvero, in caso di opposizione, dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia.

La gestione del Fondo Unico Giustizia è affidata ad Equitalia Giustizia S.p.A.ed ha la finalità di finanziare: a) il Ministero dell’Interno per le attività di tutela della sicurezza pubblica e del soccorso pubblico; b) il Ministero della Giustizia per il funzionamento ed il potenziamento degli uffici giudiziari e degli altri servizi istituzionali; c) il bilancio dello Stato. In particolare il testo emendato dell’art.2 del DL143/08 specifica che le risorse del Fondo unico Giustizia, anche frutto di utili della loro gestione finanziaria, vanno destinate in misura non inferiore ad un terzo al Ministero dell’Interno ed in misura non inferiore ad un terzo al Ministero della Giustizia. Le quote di assegnazione saranno indicate ogni anno con DPCM, di concerto con i Ministri dell’interno e della Giustizia. E’ facile comprendere l’entità delle somme che confluiscono nel Fondo Unico Giustizia, basti pensare che, su oltre 600.000 libretti di risparmio postali aperti per ragioni di giustizia, sono attualmente depositati presso le Poste SPA più di un miliardo e seicentomila euro. Il fatto che queste risorse vengano reimpiegate nel comparto giustizia, e dunque servano in parte a rendere sempre più efficace la lotta contro la criminalità organizzata, è sicuramente una cosa lodevole, ma considerata l’entità delle somme sequestrate e dei proventi derivati dai beni confiscati sarebbe auspicabile che queste venissero impiegate anche per sostenere lo sviluppo economico delle comunità locali e dei territori danneggiati dalle mafie. I loschi affari della criminalità organizzata, oltre che a finanziare attività illecite di ogni tipo, danneggiano seriamente le economie locali che bloccate dal cancro mafioso non crescono con evidenti nefaste conseguenze per il territorio e i cittadini.

Da una terra come la Sicilia, che quotidianamente conta i danni economici provocati dalla Mafia, arriva una proposta in questo senso di cui si fatta promotrice l’onorevole Giulia Adamocapogruppo dell’Udc all’Assemblea regionale siciliana, che ha presentato uno schema di progetto di legge da proporre al Parlamento della Repubblica concernente la destinazione delle somme e dei proventi affluiti nel Fondo Unico Giustizia. Il disegno di legge voto nn. 508-527, approvato dal Parlamento siciliano il 14 aprile 2010, prevede che nel rispetto dei principi del federalismo fiscale il denaro e i proventi dei beni confiscati, affluiti nel Fondo unico giustizia, siano destinati allo sviluppo economico delle comunità locali e dei territori danneggiati dalla criminalità organizzata, con una specifica attenzione per il miglioramento delle infrastrutture, per il sostegno alle forze dell’ordine e per tutti gli altri interventi previsti dalla normativa regionale per il contrasto alla criminalità organizzata (Legge regionale n.15 del 20/11/2008). Qualcuno, specie dalle parti della sede leghista  di via Bellerio, potrebbe storcere il naso davanti alla proposta dell’onorevole Adamo, pensando all’ennesima occasione di spreco alla siciliana,  eppure il progetto di legge della deputata centrista ha dei contorni ben precisi che non solo mettono in pratica, in maniera corretta, i principi del federalismo fiscale ma stabiliscono un prezioso criterio di giustizia per cui le terre penalizzate e depredate dal fenomeno mafioso sono risarcite con infrastrutture, investimenti, caserme e scuole. Non si tratta dunque di togliere fondi al ministero della giustizia o a quello dell’interno, ma la destinazione di queste risorse alle comunità locali afflitte dal fenomeno mafioso risponde ad una logica di lotta alla criminalità che non è fatta esclusivamente dell’azione della magistratura e delle forze dell’ordine ma anche dall’azione di promozione sociale ed economica nella convinzione che la lotta alle mafie si fa anche con una economia libera, con infrastrutture decenti, con case, scuole ed ospedali.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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La chiesa ambrosiana e il vento dell’accoglienza: un saluto al card. Dionigi Tettamanzi

postato il 8 Luglio 2011

Ricordo la prima volta che l’ho visto- un pomeriggio autunnale di novembre- tutti i giovani ambrosiani e i ragazzi del movimento ministranti della diocesi più grande del mondo (1108 parrocchie e un numero di fedeli superiore ai 5 milioni di persone) erano là. Qualche mese prima avevamo salutato sventolando palme d’olivo a San Siro il card. Carlo Maria Martini che annunziava il suo ritiro in Terra Santa, a riprendere gli studi biblici e gli stessi passi compiuti dal Messia nel Getsemani. Il k-way stava a malapena nel mio zainetto di ragazzo di quinta elementare, inutile in quella giornata solare, la ola che dovevamo realizzare per festeggiarlo ci era riuscita malissimo e dall’alto delle gradinate dell’arena civica -pezzo di storia del rugby milanese degli Amatori- cercavo di scorgere la figura che a momenti doveva fare il suo ingresso. Ricordo un omino non particolarmente alto di statura ma dalla voce calda e tranquillizzante, come quella di un agnello che lasciava subito in mente un segno di serenità.
Era appena entrato Dionigi Tettamanzi, l’arcivescovo della diocesi più grande del mondo.
Se dovessi scegliere un gesto per rappresentare questi nove anni non avrei dubbi: la vendita benefica all’asta della sua collezione privata di presepi per sostenere di tasca propria il Fondo Famiglia Lavoro-fondo istituito per intuizione dello stesso cardinale, o meglio come afferma lo stesso, per un’intuizione dall’alto con lui tramite -un fondo per creare iniziative di sensibilizzazione e solidarietà ed aiutare i lavoratori colpiti dalla crisi e i padri di famiglia rimasti senza lavoro. “Con l’avvicinarsi del Natale – ha spiegato il cardinale presentando l’iniziativa – ho sentito il bisogno di rinnovare l’intuizione che avevo avuto nel 2008. Un’intuizione che veniva dall’alto. Un tratto di strada l’abbiamo fatto, ma gli effetti della crisi sono ancora sotto gli occhi di tutti, e quindi vorrei rilanciare il Fondo con lo spirito e la freschezza con cui ha mosso i primi passi. E come allora mi sono chiesto: io cosa posso fare, io, proprio io?”. In questo modo I volontari della Caritas e delle Acli, che gestiscono  il progetto, hanno potuto aiutare 4.667 famiglie, con assegni da 800 a 4mila euro, a seconda delle necessità.
A mio modo di vedere il card. Tettamanzi ha incentrato la propria opera sul Cristianesimo mostrato da Charles Peguy nel testo “Lui è qui” . L’affermazione strenua del valore del carnale, del temporale e la centralità della categoria di “avvenimento” come chiave di comprensione del fenomeno umano e di un cristianesimo che si rivolge nel profondo ai bisogni, alle debolezze, alla malattie e alle tristezze dell’uomo, lo spirito dell’accoglienza che ha sempre animato la Chiesa di Milano: la tradizione racconta che Sant’Ambrogio, il più grande uomo e vescovo che la chiesa ambrosiana ricordi, non esitò a fondere i calici e i vasi sacri del Duomo e delle chiese della città per pagare il riscatto di alcune popolazioni barbare che varcato il confine dell’Impero Romano avevano devastato Milano e il nord’Italia prendendo in ostaggi donne e bambini. ““Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”.
Ora la Chiesa di Milano, la diocesi più grande del mondo, aspetta il nuovo cardinale Angelo Scola e la vita buona. Come scrive Aldo Cazzullo, una delle prime firme del Corriere della Sera, la sua idea è che il cristianesimo non penalizzi le passioni, i desideri e neppure gli istinti, anzi l’esalta l’umanità e l’attenzione per il vero e per il bello. Facciamoci trascinare da questa atmosfera per praticare la vita buona e cantare tutti insieme “O mia bela madunina”

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

PER APPROFONDIRE
Il sito della Fondazione Famiglia Lavoro della Diocesi di Milano istituita dal Card. Dionigi Tettamanzi

CONSIGLI DI LETTURA:
-“La vita buona” di Angelo Scola e Aldo Cazzullo. Dialoghi su laicità, scienza e fede, vita e morte alla vigilia del Redentore
-Manuale di Bioetica, Dionigi Tettamanzi

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Due calcoli sui BOT, sugli investimenti e sulle nuove tasse del Governo

postato il 7 Luglio 2011

Abbiamo detto di come il governo, aumentando l’imposta di bollo sui conti titoli, penalizzi i piccoli risparmiatori. Oggi vorrei approfondire l’argomento, perché mi rendo conto che sono stato un po’ frettoloso, macchiandomi quindi di una colpa grave, visto che parliamo del risparmio degli italiani e che l’argomento è alquanto complesso.

Partiamo da alcune informazioni di base: sui dividendi che danno BOT, CCT, BTP e titoli azionari, al momento vi sono 3 tassazioni che colpiscono tutti (cassettisti e investitori), e poi il capital gain che colpisce solo gli investitori (con questa categoria considero i risparmiatori che acquistano e vendono titoli, guadagnando sulla differenza di prezzo). Con queste tasse, chi sono colpiti? I piccoli risparmiatori, non certo i grandi patrimoni. Perché? Perché per un grande patrimonio, pagare 39 euro o 120 euro cambia poco nei rendimenti, ma per chi investe 20.000 euro con un rendimento all’1% (caso dei BOT), significa andare in perdita.

Spieghiamo come. Intanto partiamo dal rendimento lordo e ipotizziamo un BOT che rende circa 1,2% l’anno. Se consideriamo un investimento di 20.000 euro, otteniamo un rendimento lordo di circa 240 euro. Adesso a questi 240 euro, dobbiamo togliere: 30 euro di tenuta titoli (per i titoli azionari è pari a 60 euro), 120 euro (come è nella finanziaria) di bollo annuale e scendiamo da 240 euro a 90 euro.

Abbiamo finito? No, perché in realtà il dividendo non è di 240 euro, ma meno, infatti al dividendo lo stato applica una ritenuta alla fonte (una tassa) pari al 12,5% del dividendo, quindi altri 30 euro da pagare. Quindi alla fine abbiamo: 240 euro di introito a cui dobbiamo togliere il 12,5% (quindi 30 euro circa), 30 euro di tenuta titoli, 120 euro di bollo annuale. Quanto resta? 60 euro.

Vi sembra molto? Direi di no, perché per giunta, dobbiamo fare un’altra specificazione: il dividendo lordo (240 euro) va a finire nel calcolo IRPEF e quindi altre tasse.

E se invece di un Bot, consideriamo un BTP decennale? Il BTP con scadenza a 10 anni, rende circa il 5% lordo che su 20.000 euro investiti garantisce un rendimento pari a circa 1000 euro.

Sembra molto? Intanto consideriamo che questi soldi restano “bloccati” per circa 10 anni (a meno di volerli vendere e perdere 1-2% del capitale investito), e ogni anni si percepiscono questi 1000 euro lordi. Ma quanto resta di netto? Riprendiamo i calcoli precedenti e abbiamo 1000 euro lordi a cui sottrarre 125 euro (il 12,55 di ritenuta), 30 euro di tenuta titoli e 120 euro di bollo annuale, e resta un totale di 725 euro, a cui togliere le ulteriori tassazioni dell’IRPEF.

Stesso andamento se consideriamo i titoli azionari (che rendono qualcosina in più, ma hanno maggiori tasse, ad esempio le spese di tenuta titoli raddoppiano e passano a 60 euro). Da questi calcoli diventa evidente che chi subisce il depauperamento maggiore è il piccolo risparmiatore, e andando nello specifico, chi possiamo considerare come piccolo risparmiatore? Se consideriamo gli importi calcolati, ci rendiamo conto che i 20.000 euro investiti sono appannaggio o di un pensionato o di un giovane lavoratore (che in media percepisce poco meno di 1000 euro al mese e non ha molte possibilità di mettere da parte grandi risparmi, visto lo stipendio e il costo della vita). Quindi ad essere penalizzati maggiormente sono le due categorie più “deboli” in Italia: i pensionati e i giovani lavoratori.

E cosa succede se aumentiamo il capital gain? Nel 2009 lo Stato italiano dal capital gain ha preso circa 300 milioni, quindi anche raddoppiandolo e considerando il 2009 lo Stato prenderebbe solo altri 300 milioni aggiuntivi. Ma anche qui, al di là delle ideologie, andiamo a colpire solo i piccoli risparmiatori. Infatti la tassazione del capital gain interessa solo le persone fisiche non imprenditori o, se imprenditori, limitatamente ai beni non appartenenti all’impresa.

Sono esclusi i soggetti che conseguono tali redditi nell’ambito di un’attività commerciale, in quanto per questi ultimi i proventi conseguiti sono attratti per presunzione assoluta nella disciplina del reddito d’impresa, ove non soggetti a ritenuta d’imposta o ad imposta sostitutiva (art. 45 TU). Banche, assicurazioni e investitori professionali (fondi speculativi e fondi di investimento) subiscono la tassazione del regime dichiarativo e quindi sui guadagni derivanti da investimenti di borsa pagano le tasse “aziendali” (Irap e simili) con tassazione al tra il 40 e il 50% degli utili. Da ciò si deduce che, se per una questione ideologica vogliamo aumentare la tassazione del capital gain dal 12,5%, si può fare, ma si sappia che si vanno a colpire i piccoli risparmiatori senza che lo Stato possa incamerare cifre tali da avviare un robusto risanamento dei suoi conti.

Da quanto sopra, non ho voluto considerare le conseguenze per la già debole “industria finanziaria” italiana.

A questo punto, possiamo solo concludere in un modo: se il governo vuole aumentare la tassazione dell’imposta di bollo e portarla a 120 euro, può farlo, ma, se volesse fare una cosa giusta, dovrebbe coinvolgere i grandi patrimoni o quanto meno quelli abbienti, partendo da una cifra di almeno 200.000 euro investiti, proprio per non penalizzare gli italiani non abbienti o addirittura poveri.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Abolizione delle province, rabbia e delusione in rete

postato il 6 Luglio 2011

C’è chi ha provato ad ironizzare alla maniera del Bersani di Crozza con un divertentissimo “ragazzi, ma siam pazzi, siam mica qui ad abolire le province”, ma in rete il sentimento prevalente riguardo alla mancata abolizione delle province è la rabbia, in particolare verso il Partito Democratico che in aula si è clamorosamente astenuto. E’ soprattutto la base del Pd a farsi sentire sul web. Su Twitter c’è chi va giù duro sulla dirigenza del Pd: “soliti idioti”“politicanti in standby”“quaquaraquà”, qualcun altro si rivolge direttamente a Rosy Bindi chiedendole di non indignarsi solo per Berlusconi ma anche per come votano in Parlamento. Poi ci sono i delusi come la giornalista Ilaria D’Amico che parla esplicitamente di “brutta figura”, o un giovane di Lodi che rivolge un lapidario invito a Bersani: “volete cambiare l’Italia? Guardate Twitter, quello che la gente pensa sulle province. E che cavolo, ascoltateci una buona volta!”.

Su Facebook l’aria che si respira non è differente e mentre sorgono pagine e gruppi che chiedono l’abolizione delle province, le pagine ufficiali del Pd, di Pierluigi Bersani, di Rosy Bindi e di altri dirigenti democratici, sono prese d’assalto da militanti inferociti che chiedono conto del comportamento dei propri dei parlamentari. Interpreti del malessere dell’elettorato democratico sono  i blogger più vicini al centrosinistra. Metilparaben di Alessandro Capriccioli liquida il comportamento in aula del Pd con un secco “è semplicemente penoso”, Alessandro Gilioli dal suo “Piovono rane” rievoca per Pdl e Pd il celeberrimo “hanno le facce come il…” del giornale satirico “Cuore”, mentre Pippo Civati ammette la figuraccia e pone qualche dubbio sulla capacità del Pd di essere realmente una forza di cambiamento e di governo. I delusi dal Pd hanno però anche parole di elogio per chi si è battutto con coerenza, tanto che un medico su twitter lancia una proposta: “tutti a votare Pier Ferdinando al prossimo giro?”.

Adriano Frinchi

Commenti disabilitati su Abolizione delle province, rabbia e delusione in rete

Uno sguardo ad una finanziaria miope e penalizzante

postato il 6 Luglio 2011

Berlusconi afferma che con questa finanziaria il Governo non mette le mani nelle tasche degli italiani e ha ragione: perché il governo dovrebbe sporcarsi le mani a “scippare” gli italiani se può comodamente incaricare altri? Il trucco è semplice: si dichiara che lo Stato chiede di meno o non chiede affatto, ma poi prende i soldi o effettua tagli, in modo che siano altri soggetti a prelevare dagli italiani. Il risultato? Che Berlusconi potrà dire che se le tasse aumentano o i soldi degli italaini diminuiscono, non è colpa sua.

Caro Presidente, forse non lo sa, ma l’Italia non è abitata da fessi o “boccaloni”, ma da gente che è capacissima di ragionare. A tal proposito diamo uno sguardo a questa “bella” finanziaria munendoci di una calcolatrice (anche quella del cellulare va bene, o anche carta e penna). Iniziamo da un piccolo provvedimento “sganciato” dalla finanziaria: la settimana scorsa hanno aumentato le accise sulla benzina di complessivi 6 centesimi al netto di iva. Quindi, in auto, si spendono 6 centesimi (più iva) per ogni litro di benzina. Quanto incassa in più lo Stato? Nel 2010 sono stati venduti circa 30 miliardi di litri di benzina; se moltiplichiamo questo quantitativo di benzina per i famosi 6 centesimi (più iva) otteniamo circa 2 miliardi di euro in più l’anno. Quindi con questo provvedimento otteniamo tre risultati: lo Stato aumenta i suoi incassi per il 2011 di circa 1 miliardo di euro, e dal 2012 di ben due miliardi di euro; otteniamo che aumenta l’inflazione diretta e indiretta (il costo della benzina è conteggiato nei panieri istat per l’inflazione e incide sui costi finali dei trasporti di merci) che è vista come il fumo negli occhi dalle autorità europee; e terzo risultato, il cittadino spende di più. Certo, formalmente il di più, noi lo paghiamo alla pompa di benzina, ma questi soldi in più vanno tutti allo Stato; quindi chi è il responsabile dell’aumento? Ovviamente il Governo che aumenta le accise.

E cosa dire della tassazione, anzi della patrimoniale, che lo Stato impone sui risparmi? Tra il 2011 e il 2014, l’aumento dell’imposta di bollo sui conti titoli porterà alle casse dello Stato, circa 8 miliardi di euro aggiuntivi, che saranno pagati dai cittadini. Questo lo dice lo stesso Governo, come si desume dalla bozza della relazione tecnica alla manovra da 47 miliardi, ancora sotto esame del Quirinale che dice testualmente: “L’incremento dell’imposta di bollo a 120 euro per gli anni 2011 e 2012 e a 150 euro per i depositi sotto i 50.000 euro (380 euro per i depositi con valore superiore a 50.000 euro) a decorrere dall’anno 2013, determina un incremento di gettito su base annua di circa 892 milioni di euro annui per i primi due anni e di circa 2.400 milioni di euro per gli anni a partire dal 2013”.

Se adesso facciamo due conti e ipotizziamo un pensionato che ha 25.000 euro investiti, supponiamo in un BTP, abbiamo che a fine anno con un tasso di interesse del 3% ottiene 750 euro lordi (da inserire nell’IRPEF), e pagherà 120 euro di bollo, con il risultato di un guadagno di circa 630 euro lordi. Se consideriamo imposte varie, il “guadagno” decresce ulteriormente. E non è che le cose cambino molto se consideriamo un investimento in azioni o in fondi di investimento. Nel tempo, la nuova imposta di bollo dovrebbe produrre 721 milioni nel 2011, 1,3157 miliardi nel 2012, 3,5813 miliardi nel 2013 e 2,4 miliardi a partire dal 2014.

Altro punto critico è l’aumento dell’IRAP per banche e assicurazioni che rischiano di rivalersi poi sui clienti: l’aumento dell’Irap dal 3,9% al 5,9% per le compagnie assicurative “va oltre la logica della partecipazione e dei sacrifici comuni” afferma Fabio Cerchiai, presidente dell’Ania (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici), all’assemblea annuale dell’associazione, il quale spera nel corso della valutazione della manovra, questo provvedimento venga rivisto, in quanto “fuorviante e incoerente con il rilancio”.

E le stesse cose sono affermate anche dal presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, che addirittura ha usato il termine “punto di non ritorno” per quanto riguarda l’imposizione fiscale, soprattutto se si considera che le banche e le assicurazioni italiane hanno ampiamente superato gli stress test degli enti governativi, ma il provvedimento dello Stato rischia di mettere sotto pressione la tenuta dei conti degli istituti italiani.

E a tal proposito, nel corso dell’assemblea nazionale dell’ANIA è emerso che è davvero interesse generale promuovere il risparmio di lungo termine, in qualunque forma esso sia investito, purtroppo tutto ciò non è stato minimamente previsto dal governo: la manovra si è dimostrata poco lungimirante perché preleva solamente e fa poco per lo sviluppo.

Mi si consenta un’ultima notazione: in questi giorni si parla di una “norma salva Fininvest”, almeno secondo l’opposizione. Mentre per il governo si tratta di una norma che tutela tutte le aziende italiane. In sostanza, vi è un procedimenti giudiziaro tra Finivest e la CIR di De Benedetti, durante il quale Finivest è stata condannata a pagare circa 700 milioni di euro. Ovviamente Fininvest ha subito presentato ricorso, ma l’attuale normativa stabilisce che «il ricorso per Cassazione non sospende l’esecutività della sentenza» di secondo grado, lasciando tuttavia al giudice la facoltà di disporre «che l’esecuzione sia sospesa o che sia presentata congrua cauzione». Con la modifica viene meno il potere discrezionale del giudice per le condanne superiori a 20 milioni di euro, imponendogli di disporre la sospensione dell’esecuzione della sentenza d’appello se la parte ricorrente «presta idonea cauzione».

Per l’opposizione è una norma che salva l’azienda del Premier, mentre per il governo è una norma che tutela tutte le aziende. Ebbene, la mia osservazione è questa: se davvero questa norma non è stata studiata per favorire Fininvest, allora il Premier o chi per ora dirige l’azienda, faccia la scelta coraggiosa di non avvalersi di tale norma. Questa scelta meriterebbe il plauso di ognuno e fugherebbe tutti i sospetti.

Ma il Premier, avrà un simile coraggio?

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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