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Egitto: un faraone in fuga?

postato il 1 Febbraio 2011

Dopo la Tunisia, l’Egitto. E dopo l’Egitto? Questa sembra essere una delle domande più ricorrenti nei dibattiti che coinvolgono gli scienziati politici ma anche sul web. Occorre subito sgomberare il campo da possibili malintesi: l’Egitto non è la Tunisia.

Nonostante la “rivolta dei gelsomini” e il “movimento 6 aprile” abbiano per certi versi delle radici comuni (disoccupazione, carovita, corruzione ….), ben diverse saranno le conseguenze nonché lo scenario politico e strategico che potrebbe delinearsi con un cambio di regime. Il peso specifico dell’Egitto nello scacchiere mediorientale appare sicuramente più determinante nelle relazioni internazionali e il ruolo geopolitico del paese più popoloso del mondo arabo è molto importante per la “stabilità della zona”.

Il rimpasto di governo voluto da Mubarak il 28 gennaio potrebbe rappresentare l’ultimo atto politico del presidente in carica dal 1981. Sulla scia di quanto già accaduto in Tunisia, Mubarak ha nominato un nuovo primo ministro: A. Shafix, un ex militare già a capo dell’aviazione, e un vicepresidente, O. Suleiman, ex-capo dei servizi segreti egiziani. Questa seconda nomina rappresenta una novità nella storia recente dell’Egitto poiché per la prima volta un presidente nomina un suo vice. In ogni caso, questa mossa potrebbe rappresentare un auto-golpe per l’ottantaduenne presidente egiziano: l’esercito infatti comincia a solidarizzare con il popolo e, stando alle ultime dichiarazioni ufficiali, si rifiuterà di sparare sulla folla durante lo sciopero generale indetto per oggi.

Il ruolo dei militari, oltre che della polizia sarà dunque fondamentale per un’eventuale fuga del “faraone” proprio come lo era stato nel caso di Ben Ali in Tunisia. Il bilancio provvisorio parla di 150 morti in tutto il paese a distanza di una settimana dall’inizio delle proteste, ma il popolo egiziano non sembra intenzionato a indietreggiare davanti alle timide aperture e chiede a gran voce la fine del regime di Mubarak del suo partito, il Partito nazionale democratico che domina la scena politica da trent’anni.

Ancora una volta internet è stato il mezzo della rivolta: Twitter, Facebook e i social network fungono da ripetitori della rabbia e alla piazza. Su Facebook è stata creata la Rete Rasd che da voce alla rivolta e serve ad organizzare la protesta: una sorta di “osservatorio della rivoluzione” (rasd in arabo significa, infatti, “monitoraggio”) che trasmetteva notizie fresche e in diretta dalla piazza, minuto dopo minuto, grazie all’uso della rete e dei cellulari.

L’Europa e gli Stati Uniti guardano con interesse e preoccupazione le rivolte in Egitto e dopo le prime dichiarazioni di circostanza e appoggio al presidente Mubarak (Mubarak “amico dell’Occidente”, “garanzia contro il fondamentalismo islamico” e “elemento di stabilità regionale”) mostrano i primi segnali di apertura e chiedono un dialogo con l’opposizione in modo da portare il paese ad elezioni pacifiche attraverso un periodo di transizione. L’Egitto di Mubarak è infatti, da trent’anni, uno stretto alleato degli Stati Uniti (così come lo era stata la presidenza di Sadat dopo la guerra del Kippur). Gli USA hanno sempre spalleggiato l’alleato mediorientale in grado di assicurare la stabilità nella regione e di tenere lontano eventuali rigurgiti fondamentalisti. Perché gli Stati Uniti non sono mai intervenuti, o perché non hanno mai condannato pubblicamente il regime di Mubarak? E perché condannano con così tanta insistenza il regime iraniano mentre hanno taciuto per trent’anni nel caso dell’Egitto? (è interessante a tal proposito l’articolo apparso su Nouvelle d’Orient dal titolo “Egitto-Iran”, due pesi due misure). C’è da considerare il ruolo nevralgico per l’economia globale che l’Egitto ha rivestito, con il passaggio del Canale di Suez, sempre garantito da Mubarak.

La giornalista di Al Jazeera, R. Jordan, riferisce che la Clinton avrebbe esortato Mubarak a considerare l’opportunità di elezioni libere e democratiche ma allo stesso tempo l’avrebbe messo in guardia davanti alla possibilità che si possa creare una situazione simile a quella iraniana.

Il peggiore scenario possibile per gli Stati Uniti sarebbe infatti un governo islamico alleato dell’Iran, ma realmente esiste la possibilità che il fanatismo islamico arrivi al potere in Egitto? Le piazze da una settimana sono gremite di persone di ogni estrazione sociale e religiosa, ricchi e poveri, laici e religiosi, ma soprattutto si tratta di donne e uomini liberi che vogliono riappropriarsi del loro paese. All’interno della società civile emergono poi diversi movimenti che, dal basso, chiedono una rottura con il regime e un cambiamento forte e radicale. I Fratelli Musulmani, il maggiore gruppo di opposizione, e considerati alla stregua dei terroristi, sono rimasti dietro le quinte della protesta.

El Baradei, autorevole personaggio di livello internazionale ed ex presidente dell’AIEA, tornato in patria durante la rivolta, invoca l’intifada fino alla cacciata di Mubarak. Si è unito inoltre alla protesta anche Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba, e considerato come un altro possibile traghettatore verso elezioni democratiche.

Le possibilità che gli integralisti islamici prendano il controllo del paese sono molto scarse (preoccupazioni intensificate dopo gli intensificati attacchi ai cristiani, il 15% della popolazione) ma in Israele prendono piede preoccupazioni legate anche a questo eventuale ipotetico scenario. La stabilità nella zona sarebbe infatti a forte rischio così come l’alleanza strategica tra i due paesi dopo la pax degli accordi di Camp David. Israele, nonostante possieda l’esercito meglio preparato del Medio oriente, non vorrebbe arrivare ad uno scontro frontale con l’Egitto ma potrebbe sentirsi minacciato e accerchiato. E se simili rivolte e la stessa ventata di democratizzazione dovesse ripetersi in tutto il Medio Oriente e in Maghreb?

Gideon Levy, sulle colonne di Ha’Aretz, dice che poi verrà il tempo non solamente di Damasco, di Amman, di Tripoli e di Rabat, ma anche di Ramallah e di Gaza. Sono scenari ipotetici che non possono non preoccupare Israele.

Anche l’Europa dovrebbe imparare la lezione, cambiando le sue strategie verso il regime egiziano e il mondo arabo in generale, prima che sia troppo tardi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Shardana

Altri link:

Independent – Robert Fisk: A people defies its dictator, and a nation’s future is in the balance

Liberation – L’armée juge «légitimes» les revendications du peuple égyptien

Della Tunisia avevamo parlato qui ed anche qui.
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Tunisia: rivoluzione popolare a poche miglia dall’Europa?

postato il 22 Gennaio 2011

Il 14 gennaio 2011, il giorno in cui il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali, eletto poco più di un anno prima per la quinta volta consecutiva, qualcuno avrà pensato alla fine di un regime in piedi probabilmente dal 1956, anno di nascita della Tunisia indipendente. In realtà il piccolo stato dell’Africa settentrionale si trova ancora imbrigliato nelle vecchie spoglie di regime e la fuga del suo presidente non basterà certamente ad impedire l’esacerbarsi degli animi della popolazione; una popolazione prevalentemente giovane, stanca dell’immobilismo economico, della corruzione dilagante e delle continue limitazioni della libertà di espressione.

La fuga di Ben Ali in realtà non è stata sufficiente a calmare le proteste che reclamano anche le dimissioni dei ministri che facevano parte del vecchio regime: il 20 gennaio migliaia di manifestanti hanno chiesto a Tunisi le dimissioni del governo di transizione.

La “rivoluzione dei gelsomini”, così come è stata ribattezzata, affonda le sue radici nell’ultimo anno ma l’episodio che probabilmente ha innescato la miccia è stato il sequestro del bancone di frutta e verdura di un mercante ambulante, anch’egli un giovane laureato che non riusciva a trovare un posto di lavoro, e che si è dato fuoco in segno di protesta. A partire da quest’episodio la protesta si è allargata a macchia d’olio, fino a raggiungere la captale, Tunisi. La rivolta vede coinvolti diversi attori sociali: studenti, sindacati, mercanti e numerose donne si uniscono rivendicando i loro diritti sociali: cibo, lavoro, libertà etc…

Infatti,  nonostante il miglioramento del grado di istruzione dei giovani tunisini, le èlite al potere non sono riuscite ad adottare politiche soddisfacenti, tese a creare nuovi sbocchi occupazionali in grado di assorbire la forza lavoro locale, quantitativamente elevata e qualitativamente meglio istruita. Molti giovani decidono di espatriare, alla ricerca di nuove opportunità in terra straniera. Il suolo tunisino, al contrario dei suoi vicini (Algeria, Libia …) non è ricco di risorse energetiche pertanto risulterebbe difficile, in tempi di crisi economica, mantenere in piedi il sistema soprattutto grazie ai proventi di una rendita petrolifera.

Le esportazioni industriali si sono fortemente contratte, i turisti europei sono rimasti a casa loro e così anche gli investitori esteri. Risultato: ne ha sofferto l’occupazione e la crescita non assorbe, in media, più che la metà di una fascia d’età (con meno di 35 anni) in forte crescita, a fronte dei 2/3 della popolazione risucchiati dalla crisi. Ricordiamo che la Tunisia vive grazie alle esportazioni di prodotti agricoli e tessili ma soprattutto grazie al turismo.

Ma veniamo all’Europa, che ruolo svolge o ha giocato l’UE all’interno dei confini tunisini? E’ noto il sostegno europeo al governo tunisino, anche prima che scoppiasse la “rivoluzione dei gelsomini” il vecchio continente aveva ben pensato di stanziare una somma di 240 milioni di euro per la cooperazione tecnica tra la stessa UE e il paese africano. Neppure davanti alle forti restrizioni alla libertà d’espressione, alle carenze democratiche, all’imperante corruzione l’Europa hai mai staccato la spina al regime di Ben Ali, il quale contava invece sull’appoggio dei burocrati e dei ministri europei grazie al suo impegno a favore della lotta al terrorismo islamico, evidentemente la prima preoccupazione di Bruxelles, o comunque la conditio sine qua non per avviare dei negoziati o per stipulare accordi.

In tempi recenti o comunque prima che la Tunisia finisse nel caos, erano state varie associazioni a lanciare l’allarme chiedendo esplicitamente all’UE di cessare i negoziati per il partenariato strategico tra Bruxelles e Tunisi; una di queste è Résean Euro-Mediterranéan des droits de l’homme (Remdh).

Dicevamo dunque del sostegno europeo al regime pluri-decennale di Ben Ali; esso si basa sul tacito accordo sulla lotta al terrorismo. Gli islamisti esistono anche in Tunisia, sebbene la maggior parte di loro sia stata eliminata fisicamente dal regime nei passati decenni, mentre i leader sono fuggiti all’estero. La loro possibilità di successo tuttavia si scontra con un movimento molto laico, evidente soprattutto nella partecipazione delle donne alle manifestazioni.

Intanto le proteste non si sono placate nemmeno dopo la destituzione ufficiale del presidente Ben Ali da parte del consiglio costituzionale e la proclamazione di F.Mebazaa quale presidente ad interim. Come suggerisce un giovane blogger tunisino, è tempo di passare da una rivolta popolare ad una situazione che dia stabilità. In quest’ottica, una sola azione è da intraprendere: la costituzione di un collettivo di tunisini tra attori della società civile e di varie parti dell’opposizione al fine di dirigere l’azione della protesta tunisina … “fermiamo le nostre divisioni, mettiamoci insieme e facciamo arrivare alla nostra gente e al mondo una sola voce forte, potente e legittima, con un solo moto: lottiamo insieme fino alla fine di questo regime”.

In ultima analisi potremmo dire che tutta l’area mediterranea è interessata da rivolte e tumulti: la protesta dei tunisini è quella che probabilmente è riuscita ad alzare la voce con più veemenza, ma anche in Grecia, in Algeria, in Marocco, in Egitto, ed ora anche in Albania sembra che la tensione stia salendo sempre più vertiginosamente: venti e tempeste si stanno abbattendo sul Mediterraneo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Shardana

Altri post di approfondimento li trovate su:

www.courrierinternational.com

www.aljazeera.net

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Cerchiamo di essere degni di questi ragazzi

postato il 18 Gennaio 2011

L’Italia, a prezzo dei sacrifici dei suoi militari, si fa onore nel mondo e lotta contro il terrorismo per assolvere gli impegni internazionali. Questi ragazzi si sacrificano e sono persone straordinarie. Cerchiamo di essere degni del loro sacrificio e di assumere tutti quei comportamenti decorosi e conseguenti che servono ad essere alla loro altezza.

Pier Ferdinando

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Tramonti africani e timori italiani

postato il 15 Gennaio 2011

In arabo la parola “Maghreb” significa tramonto e indicava i paesi più occidentali dei domini islamici, oggi questo nome si addice di più alla sorte dei regimi che governano gli stati africani mediterranei. Le cronache di questi giorni ci hanno raccontato il tramonto del presidente tunisino Ben Ali e come ogni tramonto, purtroppo, anche questo si è colorato di rosso, il rosso del sangue di tanti giovani tunisini.

In Italia e in Europa ciò che accade in Tunisia, e che rischia di contagiare l’Algeria e gli altri paesi limitrofi, sembra non destare interesse, forse perchè si è troppo concentrati su un’altra tristemente famosa figlia del Maghreb. Eppure l’Occidente ha delle responsabilità dall’altra parte del Mediterraneo e soprattutto l’Italia ha da imparare qualcosa da quanto sta accadendo in quelle società. L’Occidente è stato a lungo complice del fuggitivo e disprezzato Ben Ali e di tutti gli altri pseudo presidenti nordafricani, un po’ per convenienza (i ricchi affari delle imprese occidentali) e un po’ per quel calcolo politico che preferisce dittatori dal pugno di ferro capaci di sbarrare la strada ai partiti islamici anti-occidentali.

L’ipocrisia occidentale del parlare nei consessi internazionali e davanti ai media di diritti e libertà per poi sottobanco trattare affari con i tiranni locali chiudendo gli occhi su alternanza politica, diritti delle donne e delle minoranze religiose è ben presente nella coscienza del popolo tunisino e in quella degli altri paesi. Questo elemento non è da sottovalutare perché la rivolta tunisina è una moto provocato anche dal risentimento per l’imbroglio e la sopraffazione. In pochi analisti hanno infatti rilevato che una delle gocce  che hanno fatto traboccare il vaso sono le rivelazioni della vituperata Wikileaks che hanno reso pubbliche la corruzione e l’insaziabile fame di potere e denaro della famiglia di  Leila Trabelsi, una parrucchiera che il presidente Ben Ali ha sposato in seconde nozze nel 1992 e che pian piano ha scalato le vette del potere economico e politico. E’ importante sottolineare che la rivolta tunisina è stata una rivolta giovanile ed una rivolta 2.0. Non si è trattato di poveri straccioni che si sono sollevati contro l’oppressore, ma di giovani istruiti che utilizzano con dimestichezza internet e i suoi social network. Quando il 4 gennaio muore il giovane diplomato Mohamed Bouzid, che si era dato fuoco il 17 dicembre perché non aveva altra prospettiva che il suo chiosco di frutta, la notizia della sua morte comincia a circolare rapidamente su Facebook e Twitter ed è l’input per l’inizio della rivolta.

Da quel giorno la rivolta corre in rete che diventa non solo luogo di denuncia ma un vero e proprio strumento di resistenza ai colpi di coda, anche virtuali, del regime agonizzante. I giovani tunisini non sono esecrabili perchè tentano di riprendersi la loro libertà per far sì che il loro futuro non sia un chiosco di frutta o un barcone nelle acque del canale di Sicilia, per mettere fine all’ingiusto e crescente divario tra ricchi e poveri. L’Occidente e l’Italia possono ignorare questa rivolta? Possono rifiutarsi di apprendere qualcosa da quanto successo in Tunisia? Evidentemente no e ciò per due ordini di motivi. Americani ed europei non possono lavarsi le mani della crisi del Maghreb, non solo perché hanno grandi responsabilità (il sostegno alla scalata del potere e al mantenimento di questo da parte dei dittatori) ma perché l’instabilità politica di questi paesi avrà delle intuibili conseguenze politiche, economiche e sociali sull’Europa. Per capirlo è necessario vedere comparire ogni tipo di imbarcazione carica di immigrati sulle nostre coste o aspettare il tracollo di qualche impresa che ha investito da quelle parti? In secondo luogo è necessario imparare qualcosa dalla gioventù tunisina e chiedersi se in paesi come l’Italia si può continuare a imbrogliare, speculare e sopraffare le giovani generazioni. Fino a quando abuseremo della loro pazienza? C’è da augurarsi che in Italia gli stati di Facebook e i messaggi di Twitter continuino a raccontare una tranquilla quotidianità e un futuro migliore.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Non dimentichiamo i cristiani copti

postato il 12 Gennaio 2011

A meno di due settimane dal sanguinoso attacco contro la chiesa copta di Nagaa Hamadi le cronache tornano a raccontarci di attacchi contro i cristiani d’Egitto e di un incomprensibile irrigidimento delle autorità egiziane rispetto all’appello del Pontefice per la tutela delle minoranze cristiane in Medio Oriente.

Queste tristi circostanze permettono di riportare all’attenzione di un occidente secolarizzato e troppo distratto la situazione della minoranza cristiana in Egitto, vittima di una discriminazione che, nei secoli, si è inasprita o affievolita a seconda delle convenienze politiche dei governanti islamici. Attualmente i cristiani copti (la parola Copto significa “Egiziano” e deriva dal greco “Aigyptos” che a sua volta deriva dall’egiziano antico “Ha-Ka-Path” ossia la casa dello spirito di Ptah) rappresentano il 15% della popolazione egiziana e sono al 95% ortodossi mentre il resto si ripartisce tra le altre confessioni cristiane. Questa consistente e antica minoranza ad oggi non ha praticamente accesso ai vertici dello stato egiziano, da quando nel 1980 la legge islamica è divenuta “fonte principale del diritto”, così la carica presidenziale può essere ricoperta solo da un musulmano mentre se l’accesso alla carica di Premier e di governatore di una regione è formalmente garantito di fatto è molto difficile che ciò accada.

A ciò si aggiunga il fatto che non ci sono cristiani tra i rettori delle università, i responsabili dei sindacati, i vertici delle forze armate, i giudici di alto grado e in generale in tutti i centri di potere. Se la partecipazione alla vita politica e sociale del paese è quasi proibita, anche la quotidianità della comunità è sottoposta a difficoltà che non possiamo immaginare. Ad esempio costruire una chiesa è difficilissimo, ci sono tanti di quei vincoli (non può sorgere vicino a una moschea, su un terreno agricolo, vicino a monumenti…) che diventa quasi impossibile edificarne una, e non si può nemmeno pensare di celebrare il culto nelle proprie case perché si corre il rischio di una irruzione della polizia che arresterebbe i presenti con l’accusa di “riunione religiosa illegale”. Le poche chiese che resistono sono anche costrette a subire, oltre ai terribili attentati, costanti azioni di danneggiamento e saccheggio da parte di individui che godono di una scandalosa complicità della magistratura e della polizia. Inutile dire che ottenere le autorizzazioni per ristrutturare una chiesa è quasi impensabile. Se è difficile edificare una chiesa è quasi impossibile per un musulmano convertirsi al cristianesimo senza rischiare la vita, mentre non si possono calcolare le facilitazioni e i privilegi per quei cristiani che si convertono all’Islam. Anche nelle famiglie, particolarmente quelle miste, ci sono problemi e discriminazioni per i cristiani persino per i bambini che a scuola sono costretti a confrontarsi con una didattica filo-islamica che subdolamente li porta ad una “naturale” conversione.

Ricordare la situazione dei cristiani copti in Egitto e sollecitare il governo italiano e le istituzioni europee ed internazionali ad intervenire sul governo egiziano non è solo un atto doveroso ma è una prova minima di coraggio e solidarietà delle nostre società che amano definirsi libere e democratiche verso coloro che ogni domenica danno prova di fede e di coraggio andando a messa e rischiando di non tornare a casa.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Le persecuzioni dei cristiani

postato il 2 Gennaio 2011

Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. In un momento in cui milioni di nigeriani stanno celebrando le feste religiose, la Nigeria nei giorni di Natale è stata teatro di violenze che hanno colpito la popolazione di religione cristiana, funestando la festività con 41 morti, secondo ultime notizie ufficiali. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Esplosioni a catena nella regione dello Jos hanno provocato la morte di altri 34 cristiani e il ferimento di 74. Nel nord est del paese, a Maiduguri, una chiesa è stata data alle fiamme. Proseguono ancora scontri e feriti e decine di edifici sono stati consegnati alle fiamme. Il gruppo islamico Abu Sayaf ha fatto invece esplodere nelle Filippine il tetto di una chiesa cattolica nell’isola di Jolo. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio” .


Duemila anni di storia, di vite vissute, di uomini passati sulla terra con i loro odi e i loro amori, con i loro credi e le loro passioni, dividono questi due brani. Il primo, in azzurro, è un passo fondamentale della storiografia di Publio Cornelio Tacito (Annales XV,44), il secondo in rosso è il resoconto di un articolo dell’Avvenire edito il 28 dicembre 2010. Duemila anni di storia e di nuovo incendi, dolore e morte. Aveva visto giusto colui che ci aveva avvisato: ” Non sono venuto a portare la pace, ma una spada in mezzo a voi, nel mio nome subirete dilazioni e persecuzioni, la spada, la separazione, la croce, il perdere la vita”. Mi soffermo a volte a pensare cosa faccia tanta paura del messaggio cristiano. Forse quello sguardo rivolto all’Umanità come quello espresso da Madre Teresa di Calcutta capace per la sua Fede motrice di umanità di sovvertire le regole sociali delle caste indiane, forse la fiducia in una Presenza che da infinita si è resa finita, che da divina si è incarnata nella nostra fragile e meravigliosa umanità. Ma non preoccupatevi, non voglio tediarvi, almeno non in quest’occasione, con qualche resoconto storico-filosofico, apologetico o fenomenologico. L’intento di questo articolo è informare dei fatti dell’attualità che spesso passano in sordina perché ci attraggono molto di più gli ultimi gossip di qualche starletta o di un Sanremo piuttosto che i nostri fatti di attualità e umanità.

La storia dovrebbe insegnarci che in tutto il corso dell’esistenza dell’essere umano c’è stato nel nome della religione, da ogni parte, spargimento di sangue, lotte intestine, persecuzioni e condanne. Io non credo assolutamente come afferma John Lennon nella sua celebre Imagine che la pace possa essere garantita da un mondo senza nazioni, senza religioni. L’appartenenza a un sostrato culturale e quindi nell’ordine, a uno Stato , a una nazione, a una civiltà, e viceversa il senso del sacro e della fede sono elementi essenziali dell’espressione di ogni essere umano, imprescindibili e immodificabili, elementi vitali che guidano la libertà e la dignità dell’uomo.

Una sola parola, anzi due: rispetto e dialogo. E’ ciò che il pontefice Benedetto XVI ha espresso nel suo messaggio per Giornata Mondiale della Pace , è quanto il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha richiesto esprimendo il proprio cordoglio per le persecuzioni anticristiane.

Nessun trattato storico filosofico, non sono qui a fare apologetica. Semplicemente una cosa (interpello quanti si ritengono credenti) : pensiamo a noi che spesso rifiutiamo di andare in Chiesa perché piove, perché riteniamo di aver altro da fare, perché c’è la partita in televisione, perché vogliamo dormire e pensiamo a quanti non possono esprimere il loro credo e le loro funzioni o, peggio, non sanno se potranno tornare più a casa: Pensiamoci.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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Il processo all’oligarca Khodorkovskij riapre la questione dei diritti umani in Russia

postato il 29 Dicembre 2010

Agli inizi degli anni ’90 la Russia di Eltsin attraversò un convulso periodo di apertura al mercato.

Non tutte le aziende ereditate dalla defunta Unione Sovietica erano in condizioni tecnologiche ed economiche disastrose: a partire dalla metà degli anni ’70 infatti l’U.R.S.S., complice anche la Crisi Petrolifera, conobbe un notevole incremento nel campo dell’estrazione del carburante fossile.

Benché tecnologicamente arretrate, le industrie estrattive russe, divennero la preda più ambita dalla schiera di funzionari appartenenti all’ex Partito Comunista.

Si fecero così largo, sotto l’ala protettrice della presidenza Eltsin, diverse figure che approfittando della svendita per pochi spiccioli dovuta alle privatizzazioni delle aziende di Stato, riuscirono ad accaparrarsi delle industrie che in un sistema economico chiuso alla concorrenza estera come quello comunista, riservavano un potenziale di sviluppo enorme.

In questo quadro si inserisce la storia del magnate Mikhail Khodorkovskij.

Facendo leva sugli stretti legami intessuti col Cremlino, Khodorkovskij riuscì ad acquistare nel 1995 una delle principali aziende petrolifere statali, creata due anni prima da Eltisn mediante la fusione tra YUganskneftegaz e KuibyshevneftOrgSintez: nacque così la Yukos.

L’ascesa al potere di Vladimir Putin aprì un’aspra lotta di potere in capo alle aziende controllate dagli oligarchi, legati a doppio filo con la burocrazia ed il potere politico che il neo-presidente aveva intenzione di scardinare.

Proprio in questo constesto, nel 2005 Khodorkovskij a seguito di un’indagine iniziata due anni prima, venne condannato ad otto anni di reclusione per frode ed evasione fiscale, e rinchiuso in un carcere siberiano; coimputato è Platon Lebedev, presidente della banca maggiore azionista di Yukos.

Nel frattempo Yukos fu smembrata e costretta alla bancarotta a favore dello Stato, per far fronte alla richiesta del fisco di 30 miliardi di dollari.

Oggi, scontata metà della condanna, Khodorkovskij e Lebedev sono stati riconosciuti colpevoli di appropriazione indebita di 218 tonnellate di petrolio (per un valore stimato di 97,5 milioni di dollari): l’intera produzione del defunto colosso petrolifero tra il 1995 ed il 1998 e condannati a scontare altri sette anni di carcere.

Dure reazioni a quello che è visto da molti come un processo politico giungono dalle principali cancellerie occidentali.

Il Governo italiano in tal senso non ha dato seguito alle proteste internazionali, benché, come ricorda l’On. Rao (U.d.C.): – “Lo scorso anno tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ad eccezione della Lega, approvarono una mozione a firma Casini con la quale si chiedeva di attivare tutti i canali diplomatici disponibili per garantire il rispetto dei diritti umani e il diritto alla difesa di Khodorkovsky, come anche di Lebedev e dei cittadini russi in generale”. Anche “Avvenire” si è espressa nella stessa direzione, ammonendo “che la magistratura non può colpire un avversario politico”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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La Bielorussia di Lukashenko

postato il 22 Dicembre 2010

Il voto in Bielorussia ed il ruolo del Paese nello scacchiere Euro-russo.

Domenica 19 dicembre, in un paese di fatto europeo, ma che in pratica sembra rimanere un antico relitto di era sovietica, si sono svolte le elezioni per il rinnovo del mandato presidenziale.

La Bielorussia (detta anche Russia Bianca), è uno stato abitato da poco meno di 10 milioni di persone, che per la propria posizione geopolitica, ricopre un interesse particolare tanto nelle cancellerie europee quanto al Cremlino. Ad uscire vincitore da questa tornata elettorale è l’intramontabile presidente Lukashenko, in carica ininterrottamente dal 1994 e giunto, con questa discussa rielezione, al suo 4 mandato.

I dati sulla vittoria sembrerebbero schiaccianti: il presidente uscente avrebbe ottenuto l’80% dei voti, con un’affluenza alle urne intorno al 90% degli aventi diritto. Cifre e percentuali plebiscitarie, che hanno fatto sorgere fortissimo il sospetto negli osservatori internazionali (Organizzazione per la Cooperazione e Sicurezza in Europa – O.C.S.E. – in testa) di pesanti brogli nella regolarità delle elezioni. Sospetto corroborato dall’esplosione di violenza seguita alla dichiarazione dei risultati nella serata del 20 dicembre. Nel corso dei tumulti di piazza sarebbero state arrestate circa 600 persone. Fonti giornalistiche affermano che tra i feriti vi sarebbe anche il leader dell’opposizione, Niklajev, trasportato in ospedale. Un giro di vite sull’opposizione denunciato anche da Amnesty International.

La principale differenza tra queste e le precedenti consultazioni elettorali si fermano sostanzialmente al numero dei candidati: ben nove sfidanti, cui è stato persino concesso qualche spazio televisivo. La Bielorussia rimane lontana anni luce dagli standard minimi di democrazia europei. Nonostante ciò, i rapporti con i paesi dell’Eurozona si sono progressivamente distesi nel corso degli anni, nel corso degli anni ’90 infatti, il regime bielorusso arrivò ad espellere i diplomatici europei e statunitensi in un crescendo di tensione che pose fine per quasi un decennio ai rapporti diplomatici.

Il ritorno della Russia al suo antico splendore neo-imperiale, ha imposto ai paesi europei un approccio informato ad una linea di politica estera realista anche perché il paese si trova in uno snodo energetico e militare strategico.

I rapporti col vicino russo sono ottimi, salvo sporadici incidenti dettati dalla volontà di Lukashenko di affrancarsi dalla invadente influenza del potente confinante, l’economia bielorussa rimane a tutt’oggi legata a doppio filo con Mosca. L’industria nazionale, eredità sovietica, posta sotto il controllo dello stato, si basa quasi esclusivamente sulle materie prime e sulle commesse russe. Il paese dipende totalmente dal vicino per le importazioni di gas, che viene raffinato in loco per poi essere rivenduto ai paesi dell’Unione Europea, garantendo un buon margine di profitto.

Il sistema difensivo russo e bielorusso sono profondamente integrati; gran parte delle forniture militari provengono da interscambi tra i due paesi, che si dimostrano essere solidi alleati. Mosca tuttavia non perde mai occasione di ribadire la propria supremazia all’interno dell’alleanza ogniqualvolta il piccolo cugino si allontani dagli schemi.

Lukashenko ha infatti compreso la valenza strategica del suo paese, aprendosi ai leader europei. Le risposte sono state formalmente molto timide: l’unico a far visita all’ultimo dittatore rimasto in Europa, nel 2009, è stato il nostro Presidente del Consiglio, che proprio in quell’occasione ha ribadito di essere sbalordito da quanto i bielorussi amino il proprio leader. Un commento troppo generoso, come riconferma l’odierna situazione politica del paese; certamente fuori luogo, se non proprio preoccupante, quando a pronunciarlo è un leader di una democrazia occidentale.

Berlusconi ha cercato di utilizzare come canale la tanto millantata amicizia personale con Putin per favorire il passaggio della Bielorussia dell’odierno isolamento ad una prospettiva più europeista, mantenendo sempre un occhio di riguardo agli interessi russi nel paese. Il Cremlino, tuttavia, non si è dimostrato molto disponibile nel consentire una progressiva apertura dell’alleato alle potenze europee. La partita resta aperta, con i paesi dell’U.E. che incentivano maggiore collaborazione, anche sul piano dei diritti umani, garantendo come contropartita aiuti economici.

L’economia bielorussa, nonostante un progressivo incremento negli ultimi anni, resta ben lontana dagli standard europei. Il sistema è in gran parte controllato dallo Stato. La stabilità del paese, come in molti regimi illiberali, rimane ancorata allo sviluppo economico. Questo è tuttavia messo a dura prova dall’accerchiamento strategico in cui il paese rischia di trovarsi, stretto tra un’Europa che corteggia l’ultimo dittatore pur non volendo avere nulla a che fare con la disapprovazione che questo rapporto innesca in ogni paese democratico, ed una Russia che cinge il braccio intorno al collo dell’amico ed alleato Lukashenko, sussurrandogli all’orecchio che in fondo, come i cugini russi sono artefici della sua fortuna, alla stessa maniera ne possono decretare la fine.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Cosa ci insegna la vicenda WikiLeaks

postato il 2 Dicembre 2010

Le rivelazioni del sito Wikileaks a detta di alcuni sono al momento deludenti (personalmente non ne sono convinto), ma sicuramente hanno raggiunto almeno tre risultati: hanno fatto arrabbiare di brutto la signora Clinton, hanno fatto ridere Berlusconi, ma soprattutto hanno fatto piangere i giornalisti. Ed è questo ultimo punto che mi sembra assolutamente importante in questa intricata vicenda che vede protagonista il sito di Julian Assange: la rete internet e nello specifico Wikileaks ha messo in crisi, dopo l’intelligence americana, l’informazione mondiale che è stata spiazzata da un concorrente sconosciuto e assolutamente libero.

Il sito di Assange si è limitato a diffondere delle informative diplomatiche di cui è venuto in possesso, in fondo in maniera semplice, e ha consentito a livello mondiale la formazione di una coscienza critica rispetto a degli eventi e a dei personaggi che troppo spesso rimangono volutamente oscuri. La rabbia di diplomatici e politici che si vedono letteralmente “messi in mutande” è comprensibile, mentre mi sembra meno comprensibile la sufficienza del mondo dell’informazione e del giornalismo  rispetto a questa vicenda. L’Italia, e l’informazione italiana in particolare, si è chiaramente distinta in questa incomprensione del fenomeno Wikileaks e per giorni abbiamo assistito a servizi televisivi e a prime pagine di giornale a dir poco incredibili: sembravano tutte dettate dall’allarmato ministro Frattini che immagina Wikileaks alla stregua di Al Qaeda. Comprensibilmente molte redazioni sono rimaste disorientate dal fatto che nel mondo qualcuno è stato capace di trovare e dare una notizia senza apprenderla da un programma tv, da una  delle tante veline inviate dai potenti o, peggio, dallo stato Facebook del famoso di turno, e così istintivamente si sono difese da quel “cattivone” di Assange e dalla sua banda parlando di Wikileaks come sito pirata e nel libro paga di qualche organizzazione dedita alla destabilizzazione del mondo.

Non ci si poteva aspettare altra reazione da un sistema di questo tipo che, secondo Luca Sofri, è “una palude che si autoalimenta”, dove  “la mediocrità e l’anacronismo si nutrono di se stessi: si parla di Porta a porta, si va a Porta a porta, la gente guarda Porta a porta e quindi si riparla di Porta a porta”. Qualcuno forse, magari tra i soloni del giornalismo, storcerà il naso davanti a queste critiche eppure penso che un minimo dubbio sull’incapacità della nostra informazione e sulla sua compromissioni con poteri più o meno grandi verrebbe a tutti dopo la semplice osservazione di Massimo Mantellini: come mai nessun grande giornale italiano è stato scelto per ricevere e diffondere i dati di Wikileaks?

Il dubbio viene, eccome, specie se mentre i quotidiani The Guardian, The New York Times, Le Monde ed El Pais e il  settimanale Der Spiegel diffondono i cablogrammi di Wikileaks (con precisi accordi sulla sicurezza)  sui giornali italiani dobbiamo sorbirci patetiche prediche paternalistiche sulla democrazia planetaria in pericolo. Come se la verità fosse un pericolo. Forse la verità è veramente un pericolo, perché la verità, come dice il Vangelo, rende liberi e libertà e verità in coppia hanno sempre fatto paura ai signori di questo mondo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Chi ha a cuore l’Italia non usa il fango

postato il 29 Novembre 2010

Ho contestato in Parlamento la politica estera di Berlusconi rispetto a Gheddafi e Putin, e voterò la sfiducia a questo governo.
Ma davanti alle rivelazioni di Wikileaks non voglio fare polemiche perché questo prima di tutto è il mio Paese e chi ha cuore l’Italia non utilizza il fango.

Pier Ferdinando

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