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I miei primi quarant’anni in politica. Smettere? Solo se lo decide chi vota

postato il 11 Luglio 2023

La Dc sostenne Iotti alla Camera, ora c’è la dittatura delle maggioranze

L’intervista di Roberto Gressi pubblicata sul Corriere della Sera

Pier Ferdinando Casini. Deputato a 27 anni, il 12 luglio del 1983 entra per la prima volta in Parlamento. 

C’era ancora l’Urss e l’Italia di Bearzot aveva da poco vinto i mondiali. Da allora quarant’anni di politica ininterrotti, undici legislature, che ne fanno l’uomo del Parlamento più longevo della Repubblica nella contabilità dei mandati elettivi. 

All’anagrafe gli anni sono sessantasette. Due volte sposato, quattro figli, tifosissimo del Bologna, difficilmente rinuncia alla corsetta mattutina. Mille incarichi, tra i quali la presidenza della Camera. A gennaio dell’anno scorso è stato tra i tre candidati più accreditati nell’elezione che ha portato alla conferma di Sergio Mattarella come capo dello Stato. 

In politica da ragazzo, perché? E ha mai pensato di smettere?

La politica è una passione, prima che una carriera: se contrai questo virus non ci sono vaccini. Mai pensato di smettere, qualche volta ho temuto che gli elettori mi obbligassero a smettere… 

Che direbbe a Caterina, la più giovane delle sue figlie, e a un giovane in generale, se volesse fare politica?

Da un lato ne sarei contento, dall’altro la inviterei a crearsi prima una professione solida. La società della rete difficilmente consentirà carriere politiche così lunghe come è capitato a me e alla mia generazione. 

Lei è entrato con Mattarella in Parlamento: è vero che oggi conta di meno?

La situazione è imparagonabile. E non è solo un problema di qualità dei protagonisti, che esiste.  Negli anni si è progressivamente assistito a una lateralizzazione del Parlamento che oggi, non riuscendo più ad avere iniziativa legislativa propria, corre di qua e di là per “inventarsi nuovi lavori”. Emblematica è la proliferazione delle Commissioni d’inchiesta per fini politici

E i partiti? C’erano una volta quelli di massa.

C’era un altro mondo, c’era il muro di Berlino e lo scontro ideologico. C’erano valori e correnti ideali. Dal ’94 in poi sono diventati solo partiti personali.  

Iotti, Saragat, Forlani, Fanfani, Natta, Craxi, Berlusconi… Li ha conosciuti tutti e conosce tutti. Che differenze tra ieri e oggi?

Mi consenta di lasciare questa risposta all’intelligenza della gente. Stiamo parlando non di politici ma di statisti, che tra loro, tra l’altro, si contrapponevano ma sapevano rispettarsi. Negli anni della contrapposizione tra DC e PCI, quando ancora c’era l’URSS, il mio partito mi chiese di dare il primo voto della legislatura a Nilde Iotti: il PCI doveva esser coinvolto ai vertici dello Stato perché la sua forza politica rendeva inevitabile questo. Negli ultimi anni anche le presidenze delle Camere sono diventate appannaggio della dittatura delle maggioranze di turno.

E tra i leader di altri Paesi? Da chi ha imparato di più?

Ho stimato più di tutti Helmut Kohl, l’uomo che impose ai poteri forti tedeschi la parità tra il marco dell’ovest e quello dell’est all’indomani dell’unificazione. Quella scelta gli costò molto in termini elettorali, ma Helmut dimostrò che aveva ragione De Gasperi: gli statisti guardano al futuro del paese e non alle elezioni successive.

Lei portò Giovanni Paolo II in Parlamento…

La sua invocazione finale “Dio benedica l’Italia” la sento ancora viva in me. Ma il destino mi ha consentito di conoscere abbastanza bene Papa Benedetto e, da ultimo, Papa Francesco: lo Spirito santo esiste e sa scegliere gli interpreti più adatti a guidare la Chiesa nei diversi tornanti della storia.  

La fine della Prima repubblica è stata un buon affare?

Non è stata determinata da Tangentopoli come molti pensano, ma dalla caduta del muro di Berlino. Il mondo che cambiava richiedeva interpreti nuovi. Inutile vivere di nostalgia: tutto nella vita ha un inizio e una fine.

E il presidenzialismo?

In un Paese litigioso come il nostro una figura super partes, una sorta di pater familias, è indispensabile per comporre i conflitti e garantire un rispetto istituzionale. Non trovo alcuna utilità nel trasformare questa figura nell’epicentro dello scontro tra i partiti.

E’ vero che i politici sono dei gran bugiardi?

Un mio maestro mi insegnò che un politico intelligente non dice bugie, perché perderebbe ogni affidabilità. Al massimo, in certe circostanze, è meglio ricorrere alle omissioni…

Politica in perenne affanno, ma anche l’antipolitica pare azzoppata.

L’antipolitica è stata un’illusione ottica che ha fatto il suo tempo prima del previsto. E sa perché? Perché la democrazia e il Parlamento hanno un grande contenuto pedagogico: quando questi ragazzi sono entrati dentro i Palazzi del potere ne hanno capito la complessità e hanno dovuto superare i loro pregiudizi. Comunque non dimentichiamo mai che il miglior alleato dell’antipolitica è la cattiva politica, la corruzione in primo luogo.  La questione morale, che racchiude l’eterno conflitto tra il bene e il male, non è invenzione di qualche giornalista. 

Lei è stato fondatore del centrodestra e oggi è stato rieletto nel centrosinistra. Come si giudica? E come giudica Meloni e Schlein?

Io non mi posso giudicare, so solo che si è mosso tutto… Ero atlantista, europeista e degasperiano sui banchi di scuola. Mi sembra di essere lo stesso, 40 anni dopo, sui banchi del Senato. 

La Meloni certamente ha doti di leadership e ha fatto una sua lunga marcia. I suoi peggiori nemici stanno nelle fila della maggioranza: c’è un’evidente inadeguatezza. 

La Schlein è meno estremista di come viene rappresentata e di come lei stessa vuole farsi rappresentare. Ha davanti una sfida difficile e andrà giudicata con quella calma che mi sembra il PD non sia mai disposto a riservare ai suoi leader.

Quarant’anni di politica. Qual è stato il giorno più brutto e quello più bello?

Il giorno più bello è stato quello della seconda elezione di Mattarella, quando ricevetti un bell’applauso da tutti i miei colleghi. 

Il più brutto? Me ne sono dimenticato perché sono un positivo.

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