postato il 21 Dicembre 2011 | in "In evidenza, Riceviamo e pubblichiamo, Spunti di riflessione"

Carceri, uscire dal Male.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

“Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi” (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle Pene)


Oggi abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui la maggior parte degli stati democratici rifiuta la pena capitale e la tortura, infame crogiuolo della verità, eppure se il marchese di Beccaria potesse volgere il suo sguardo illuminato dall’alto dei suoi tre secoli, non sarebbe ancora soddisfatto. Nelle carceri italiane sono oltre 88.000 i detenuti a fronte di una capienza massima di circa 43.000 persone e le pene alternative concesse oggi sono solo un terzo di quelle concesse cinque anni fa. Ma al di là dei numeri spesso siamo noi stessi a voler dimenticare una verità che può sembrarci scomoda: il carcere prima di essere un luogo di punizione è, o meglio dovrebbe essere, un luogo di riabilitazione. Pensate che la parola più antica che si avvicina a questo concetto è l’aramaico carcar che significa “calare”. Ne troviamo, infatti, già menzione nella Bibbia, libro della Genesi, quando Giuseppe, figlio di Giacobbe, “arrestato” dai fratelli, fu calato in una cisterna in attesa di essere venduto schiavo al ministro del faraone. E’ verosimile pensare da un punto di vista storico e antropologico che i primi carceri siano sorti proprio con l’inizio della città e quindi della storia umana con la funzione di allontanare dalla vita sociale individui che nuocevano e portavano danno alla comunità per rieducarli alla vita civile. Ma a volte questa verità ci sfugge, forse abbiamo bisogno di vedere proiettati mostri, reali o fittizi che siano, e con passione desideriamo vederli soffrire ed essere puniti quando il diritto non ha fatto ancora il suo corso e la cronaca nera diventa trash degna di ascolti da capogiro. A volte anche noi preferiamo unirci al coro degli abitanti di Colono che gridano a Edipo che per lui può esistere solo “l’esilio o la morte”. Questi atteggiamenti ci allontanano dalla Giustizia. No, Beccaria non sarebbe proprio contento di vedere la giustizia italiana moderna, troppo spesso incapace di garantire la regolarità di un processo e la garanzia di una pena, e di vedere l’istituzione carceraria priva in questo stato della sua funzione educatrice e costruttrice ridotta a una topaia in cui ammassare uomini che privati della loro libertà perdono totalmente anche la loro umanità. Quali soluzione allora? Costruire nuove carceri? Non ci sono soldi. Una nuovo indulto? Assolutamente no. L’indulto del governo Prodi è stato una vera debacle, in meno di due anni siamo tornati al punto di inizio, tutto esaurito. La società non è stata in grado di rieducare e riassorbire molti detenuti che sono stati costretti dalla loro indigenza a perdurare sulla loro strada di rovina e delinquenza. E’ indubbiamente un positivo punto d’inizio il pacchetto di misure del ministro della Giustizia Paola Severino approvato dal Consiglio dei Ministri: scontare ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di pena ed evitare la reclusione breve di chi deve essere processato per direttissima, ricorrendo all’uso di camere di sicurezza nei commissariati. Sono misure giuste ma non risolvono il problema.

Nel 2009 al Meeting di Rimini ho assistito a uno spettacolo umano straordinario. L’incontro di alcuni detenuti del carcere di Padova all’interno della mostra “Libertà va cercando ch’è sì cara” ha lasciato un segno indelebile che ha commosso migliaia persone. Come la storia di Maurizio, padre di famiglia italiano, che prepara di giorno in uno stand soufflé al limone e dolci al cioccolato per tornare di notte dietro alle sbarre. Ha incontrato in carcere una cooperativa, il consorzio Rebus, che gli ha insegnato il mestiere di pasticciere, e un sacerdote, don Eugenio Nembrini, che lo ha invitato a non smarrire le tracce della propria umanità e a cogliere l’aspetto coercitivo e punitivo del carcere come una sfida personale, ad aprirsi all’infinito e a farsi aiutare dalla società a ri-entrare nella propria umanità. Perché senza un percorso di ri-educazione, senza questo spicchio aperto all’infinito, non può esserci l’uscita interiore da un male, dal Male, il superamento di quella sottile linea che come dice Solzenitsy attraversa il cuore dell’uomo.



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