postato il 20 Dicembre 2011
“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati
Un paio di mesi fa ho parlato dell’esperienza spagnola nel campo della flessibilità lavorativa e sono ancora dell’idea che in Italia il mercato del lavoro è sufficientemente flessibile, ma che anzi bisogna intervenire per evitare che la flessibilità si trasformi in una morsa mortale per i lavoratori. Sono favorevole alle idee di Ichino, quando parla di maggiore libertà negoziale tra le aziende e i lavoratori (sul mondo sindacale, che a mio avviso necessita di una riforma, mi riservo di intervenire in un secondo momento), ma bisogna anche considerare che maggiore libertà nei licenziamenti non implica maggiore produttività, ma maggiori rischi per quegli italiani che si trovano nella fascia d’età tra i 35 e i 60 anni. Io non sono più un giovane; conosco molti miei coetanei che, come me, lavorano con contratti a progetto o finte partite iva o altri trucchetti. A questa generazione, chi ci pensa? Capisco che non facciamo notizia come “i giovani”, ma anche le persone “non più tanto giovani” dovrebbero avere delle tutele: all’estero anzi spesso sono i lavoratori più ricercati, proprio perché la loro esperienza li rende più produttivi.
Intendiamoci: chi non lavora deve essere licenziato, questo sia chiaro a tutti; ma non si può pensare di rivolgersi ai giovani e al precariato per tenere bassi i costi di una azienda: la soluzione è migliorare la produttività, non raschiare il fondo del barile. Proprio per questo motivo, nella mia proposta, credo che bisogna mettere dei paletti nella legislazione e nell’uso dei contratti a progetto e nelle altre forme di lavoro a tempo determinato: credo che tutti concordiamo sul fatto che se una azienda mantiene al lavoro una persona per, ipotizziamo, due anni, questa persona è formata e produttiva, quindi l’azienda dovrebbe passare ad una forma di contratto a tempo indeterminato.
La mia considerazione nasce anche dall’osservazione del mondo spagnolo, paese con un’alta disoccupazione (la media ufficiale della Spagna è di circa il 23% di disoccupati), alto ricorso ai contratti a tempo determinato (circa il 30% degli occupati spagnoli, lavorano con il nostro equivalente dei contratti a progetto), e che ha introdotto le stesse liberalizzazioni in tema di licenziamento, di cui si parla quando si vuole riformare l’articolo 18 senza ottenere effetti tangibili sul lato delle nuove assunzioni.
Le nuove assunzioni, l’aumento delle proposte di lavoro, nascono tutte se aumentano gli investimenti e si creano le condizioni ideali perché le aziende possano investire crando strutture produttive, e per fare ciò, a mio avviso, spingere sulla flessibilità “spinta” non è la soluzione ideale (come dimostra l’esempio della Spagna). Il contratto a tempo determinato deve servire per mettere alla prova il lavoratore o se l’azienda ha momentanee esigenze di aumentare la propria forza lavoro; ma se questo aumento deve essere strutturale, allora non si può ricorrere alle forme di precariato.
Sostanzialmente bisogna evitare che il contratto a progetto sia una forma di assunzione “mascherata”, e questo lo si ottiene con la trasformazione in indeterminato di un rapporto temporaneo quando si raggiunge una durata determinata, che è il presupposto per stabilire se l’azienda ha bisogno “strutturalmente” di un lavoratore.
A mio avviso, tale limite di tempo può fissarsi in 24 mesi cumulativi di lavoro nell’arco di complessivi 36 mesi: in tal modo, non basterà, per azzerare i conteggi dei mesi, che l’azienda tenga scoperto il posto di lavoro per uno o due mesi (come è accaduto fino ad ora).
Si tratta , in definitiva, di evitare la nota pratica consistente nel fatto che parte dei posti di lavoro di un’impresa siano permanentemente occupati da lavoratori precari , disponendo l’azienda di un organico fisso inferiore a quello necessario per affrontare la sua normale attività produttiva.
Questa norma sicuramente servirebbe a garantire e proteggere l’abuso da parte delle aziende dei contratti a tempo, inoltre è ovvio che il conto dei 24 mesi avviene anche se tra un contratto e l’altro vi è una interruzione breve (che potremmo quantificare in 3-6 mesi). In altre parole, al conteggio non si sfuggirebbe neanche se l’azienda tra i vari contratti mettesse delle interruzioni brevi.